Tra iraniani e americani

Tra iraniani e americani

Feci spesso la spola tra iraniani ed americani, suggerendo a questi ultimi di rinunciare all’ossessione del nucleare e cercare di aprire con loro una trattativa a tutto campo. Per chiunque abbia capacità di intendimento, l’Iran è un paese troppo grande ed importante per essere condannato all’isolamento e il suo sistema politico, benché repressivo, è certamente più rappresentativo di quello di molti suoi vicini.

Se è indiscutibile che l’Iran abbia come Guida Suprema un religioso, è anche vero che ha un Presidente, un Parlamento e dei consigli comunali scelti tramite un processo elettorale al quale possono partecipare sia uomini che donne. Da notare che come forma di Stato si è scelta non l’imamato ma una repubblica. Il Paese era fragile, ma per il momento restava anche una delle poche isole di stabilità in una regione che vedevo come una polveriera pronta ad esplodere.

Riguardo il suo assetto interno, si ha a che fare con una situazione piuttosto peculiare. Più che di un regime, si può parlare di un coacervo di poteri in conflitto tra di loro all’interno dei quali il governo ha tutto sommato un ruolo debole. Ogni quattro anni vi si tengono delle elezioni presidenziali, fatto piuttosto eccezionale per la Regione. C’è anche un Parlamento che svolge un ruolo importante nella produzione legislativa. Anche se la scelta dei candidati può dirsi pilotata, questi riescono comunque a riflettere il sentimento generale. Non vi sono partiti, ma vi sono organismi che lo controllano.

Il mondo giudiziario e gli apparati di sicurezza sono sotto il controllo diretto dei Guardiani della Rivoluzione, il cui ruolo è centrale nella vita del Paese. L’economia è interamente dominata dal settore pubblico e dalla rendita petrolifera. Si tratta di un Paese che conosce grandi difficoltà ma che si presenta con una sua fortissima identità nazionale, non frutto di ideologie, ma di storia e di cultura. A farla breve si tratta di un Paese molto complesso da governare.

Cercavo di spiegare agli americani che quella cui l’Iran si sta oggi dedicando è semplicemente la più classica delle partite geopolitiche: cercare di estendere la propria influenza nel vicinato. Questa politica, alla quale non intende rinunciare, non potrà che tornargli utile in caso di futuri negoziati. Sarà difficile uscire da questa situazione limitandosi ad un semplice accordo sul nucleare e penalizzando i tentativi di emancipazione del popolo iraniano.

Non avendo in mano molte carte da giocare, ritenevo che, per il regime di Tehran, la questione nucleare fosse, soprattutto, strumento di negoziato, da giocarsi con la massima spregiudicatezza. Ritenevo, infatti, gli iraniani abilissimi negoziatori.

Sottolineavo come fosse necessario tornare a quella che è la vera funzione della diplomazia, ossia trattare con l’avversario e cercare di trovare un accordo regionale che possa risolvere le rivalità tra le parti coinvolte. L’ideale sarebbe quello di riuscire ad integrare l’Iran nella comunità internazionale: a volerlo isolare, questo si è ricavato un proprio ambito di azione. Ai miei occhi l’atteggiamento americano non era costruttivo, in quanto tanto si è più forti dell’avversario, tanto più era necessario mostrare maturità e giudizio: a continuare su questa strada non si farà che alimentare la causa delle fazioni più conservatrici e indebolire le forze moderate.

Per garantire stabilità alla regione, sarebbe necessario tornare a quella che è la vera funzione della diplomazia e cercare un accordo regionale che possa risolvere le dispute e le rivalità tra le parti coinvolte.

Volgere lo sguardo al passato può essere utile ed in questo caso la guerra dei 30 anni potrebbe indicare un percorso. Un insieme di conflitti civili, dispute territoriali, guerre tra nazioni e crociata religiosa, questa guerra si è conclusa nel 1648 con il trattato di Westfalia.
La spietatezza, la brutalità, il numero delle vittime e le devastazioni hanno convinto i protagonisti a metter fine alla guerra ed affrontare i problemi che ne sono stati l’origine: tagliando il nesso tra politica estera e fede religiosa, sono stati così sanciti il principio di non-intervento negli affari di uno stato e di non-sobillare-governi facendo uso di movimenti radicali e di gruppi manovrati dall’esterno.

Un accordo inspirato a simili principi potrebbe sfociare in uno stato legale permanente, restituire stabilità alla regione e giovare all’ordine internazionale. Per chi cerca il conflitto, sia utile la consolazione che la diplomazia è una guerra condotta con altri mezzi. A causa della sua rivoluzione l’Iran può dirsi nazione revisionista. Con i cambiamenti degli assetti mondiali e soprattutto locali, si tratta adesso di trovare un’intesa su quale debba essere il suo ruolo nella regione.

Ad oggi, non è scaltro identificare l’Iran con il nucleare, additarlo come fonte di tutti i mali e tenerlo sotto perenne assedio. Non avendo in mano molto, penso che per il Paese il nucleare sia strumento di negoziato e modo per esser preso sul serio. Nazione di ben altro rilievo, l’Iran, non è da confondere con la Corea del Nord. Per concludere, ho sottolineato come paradossalmente Tehran sia più pericolosa senza bomba atomica che con essa.

Con tutta probabilità lo scopo dell’Iran non è tanto la fabbricazione di un ordigno nucleare, quanto il raggiungimento dello stato di “paese soglia” – la cosiddetta “opzione 0” – ossia arrivare a quel grado di conoscenze per realizzarlo in caso di necessità.

Convincere gli americani di ciò non mi fu possibile. Nel cercare di modificare l’orientamento di Washington collaborai anche con un ex-Ambasciatore americano a Roma e con un’importante fondazione di politica estera con sede a New York. Fu tutto inutile e tengo a sottolineare come non ebbi nessun appoggio da parte della politica italiana.

Per vedere qualcosa dovetti attendere l’arrivo dell’amministrazione Obama. Nel frattempo mi ero operato per far entrare l’Italia al tavolo delle trattative sul nucleare condotte dal gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania). In un mondo nucleare, se si voleva contare qualcosa sarebbe stato necessario sedere a quel tavolo e non vedevo perché non potesse trovarvi posto l’Italia. Con l’arrivo al governo di Berlusconi, il nostro Paese aveva subìto un rilevante declassamento a livello internazionale: sarebbe stato bene porvi rimedio e questo sarebbe potuto essere un passo in quella direzione.

Ecco come si svolsero i fatti. Nel corso di un pranzo alla villa della Camilluccia che mi era stato offerto dall’Ambasciatore iraniano, venni a sapere da lui che il suo Paese voleva che l’Italia partecipasse a queste trattative. Venne infatti convocato a Tehran ove gli fu data una lettera da consegnare al nostro ministro degli Esteri, all’epoca Frattini. Tornato a Roma, egli si recò alla Farnesina per consegnare la missiva. Ancora aspettava la risposta: sarebbe questa la capacità della nostra politica estera? Più cretini di così non si poteva essere e decisi di fare un tentativo per rimediare a tanta insipienza.

Ne discussi spesso in Ambasciata ma i tempi non sembravano maturi. Con l’elezione di Obama decisi di resuscitare la cosa. Ne fui ancora più convinto quando nel giugno del 2013 Rohani ottenne la presidenza: di tendenze moderate, egli era infatti più aperto ad un dialogo con l’Occidente. Decisi di cogliere subito l’occasione per sondare l’Ambasciatore. Gli chiesi se fosse disposto a dare una conferenza e venire a cena al Circolo degli Scacchi. Mi fece intendere che lo avrebbe fatto volentieri. Mi recai a trovarlo insieme a Giovanni Rebecchini, quale rappresentante del Circolo e Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali.

Dovetti ricorrere a questo stratagemma perché vi era nel Circolo una forte ostilità ad avere come ospite l’Ambasciatore iraniano. Coinvolgendo lo IAI, potevo dare l’impressione che non fossero gli Scacchi ad organizzare l’evento, ma solo ad ospitarlo.

In Ambasciata questi miei tentativi vennero seguiti da vicino al punto che ebbi la certezza di averne anche il consenso. La cosa era pronta ad essere dibattuta e affinché tutto potesse meglio funzionare, l’abbinai alla faccenda della statua di Omar Khayyam. Mentre procedevo in vista di tutto ciò, le elezioni di Giugno del 2013 portarono alla presidenza Hassan Rohani. Poco dopo venne rimosso l’ambasciatore che conoscevo piuttosto bene e ne arrivò uno nuovo. Sapevo di non avere a disposizione un tempo infinito: sospettavo infatti fossero in corso trattative sotterranee tra Washington e Tehran.