L’Impresa Almagià e note biografiche su alcuni membri della famiglia 

Impresa Almagià e note biografiche 

Per oltre cento anni, dalla fine dell’800 al 1980 circa, numerosi membri della famiglia Almagià lavorarono in terra d’Egitto. Furono grandi imprenditori e abili costruttori. Parteciparono e vinsero le gare per la ricostruzione del porto di Alessandria, la realizzazione del collettore fognario della città, le banchine del Canale di Suez e di importanti opere ferroviarie.

Diedero lavoro a tecnici e maestranze specializzate, molte delle quali italiane, e a centinaia di operai.

Benché gli Almagià si fossero stabiliti in Ancona almeno dagli inizi del XVII sec. la moderna storia della famiglia ha inizio con tre fratelli: Raffaele, Joab e Mosè Almagià. Ebbero a loro volta dei figli: Leone, Vito, Saul, Ezechiele, Allegra e Diamante. Saul ebbe quattro figli: Virginia, Roberto, Edoardo e Vito.

Edoardo Almagià: meglio noto come Edoardone, fondò un’ impresa di ingegneria, specializzandosi all’inizio in lavori ferroviari. Nato ad Ancona l’11 Luglio 1841, si laureò in Ingegneria all’Università di Pisa. Giovanissimo, prese parte come volontario garibaldino alla terza Guerra d’Indipendenza insieme al futuro Primo Ministro Francesco Crispi, di cui fu anche grande amico. Suo fratello Vito partecipò alle guerre del 1866 e del 1870 come ufficiale di artiglieria del Regio Esercito.

A 26 anni, Edoardone iniziò la sua carriera di costruttore realizzando in Italia importanti opere ferroviarie. In seguito si cimentò con successo nell’esecuzione di opere marittime. Nel 1899 estese all’estero il suo campo d’azione, prima in Turchia e Romania, poi in Egitto dove fondò l’ impresa per i lavori portuali e marittimi.

Roberto Almagià: fratello di Edoardone, si dedicò alla finanza e creò in Ancona un Istituto di credito, la Banca Almagià. Ebbe due figli, Edoardo e Vittorio. Entrambi furono ingegneri. Vittorio non ebbe lunga vita e morì a Tripoli mentre, tra mille difficoltà, dirigeva i lavori per la costruzione del porto.

Edoardo Almagià: Figlio di Roberto, Edoardo era nato ad Ancona nel 1871. Laureato al Politecnico di Torino nel 1894, fece il servizio militare nel 13° Reggimento Artiglieria da Campagna. Nel 1896, sempre a Torino, si diplomò in elettrotecnica. L’anno successivo fu promosso Sottotenente di complemento presso il 3° Artiglieria di Bologna.

Giovane brillante e di grande intelligenza, presto sostenuto dall’esperienza e dall’interessamento dello zio omonimo, divenne uno dei più apprezzati costruttori dell’ epoca. Iniziò la sua attività con lavori di costruzione ferroviaria in Romania e Ungheria, dimostrando subito elevate capacità tecniche ed organizzative. Nel 1899 gli fu affidata la direzione dell’impresa di costruzioni fondata dallo zio in Alessandria d’Egitto per l’esecuzione di opere marittime. In competizione con le ben più grandi e celebri ditte inglesi, francesi e tedesche, a sua gran sorpresa riuscì a vincere le gare per lavori nel porto e nella città di Alessandria. Incoraggiato da suo zio, si recò in Egitto e costruì la banchina del porto est con relativo collettore generale della fognatura della città.

Rimase in Egitto fino al 1909 portando a termine altre opere importanti per la sistemazione del porto di Alessandria, quali il porto Ovest. Lì fondò, insieme al fratello Vittorio, una propria impresa di costruzioni che col tempo divenne la più grande impresa italiana di lavori portuali e marittimi. Eseguì la parte più importante delle opere di Porto Said e lavorò al Canale di Suez. La sua impresa eseguì anche lavori al Cairo e in altre località del Paese.

Tornato in Italia, assunse in proprio una serie di importanti lavori marittimi, principalmente a Venezia, dove la sua impresa ha operato fino al 1934. Effettuò lo scavo del bacino e la costruzione del molo Ponente, del primo canale di accesso alla terraferma e gran parte dei lavori per la creazione del porto industriale. Nel periodo bellico mise la sua impresa a disposizione del comando della piazza marittima di Venezia ed eseguì tutta una serie di lavori inerenti alla difesa militare. Tra il 1917 ed il 1919 eseguì per la Regia Marina gli scavi per la costruzione delle dighe nella rada di Augusta.

Dal 1912 al 1916 ha collaborato alla costruzione del porto di Tripoli, iniziata da suo fratello Vittorio. Nel 1917, invitato dal conte Volpi, partecipò alla costituzione del Sindacato di Studi dal quale partì poi l’iniziativa della costruzione del Porto Industriale di Marghera. Negli anni dal 1920 al 1922 ha eseguito lavori di scavo e di salvamento scogliere nel porto di Napoli.

Nel 1923, congiuntamente ad un altra impresa, ha eseguito i grandi lavori di ampliamento del porto di Catania. Sempre nello stesso anno, insieme a suo cugino Roberto, ha concorso alla costituzione della Società Anonima Impresa Costruzioni Stradali in Sicilia (ICSIS). Vennero eseguite importanti opere stradali, poi i lavori di bonifica a Lentini e anche un insieme di lavori per le Ferrovie dello Stato ed il genio militare. In Sardegna si sono occupati delle bonifiche del Sulcis.

Nel 1935 ha concorso con altre imprese alla costituzione della Società Coloniale Anonima Lavori Africa (SCALA). Diresse ed eseguì lavori stradali, edilizi, militari, marittimi in Africa Occidentale ed in Libia. Molte di queste opere vennero eseguite in collaborazione con suo cugino Roberto Almagià, del quale parleremo tra poco. Nella propria biografia, Chaim Weizmann, che diventerà il primo Presidente di Israele, descrive un incontro avvenuto in via Paisiello nel quale si discusse la possibilità di costruire un grande porto ad Haifa: il progetto era da discutersi con gli Inglesi, ma per via del clima politico e dei cattivi rapporti di Mussolini con Londra non se ne fece nulla.

A seguito delle leggi razziali trovò rifugio presso un suo dipendente. Insieme alla moglie Cecilia e alla figlia Paola visse nascosto in un appartamento a Piazza Perin del Vega, fino alla liberazione di Roma. Per via dell’importanza e delle dimensioni della propria impresa, fu costretto a cederla ricevendo in cambio buoni del Tesoro del Regio Governo: ebbe così fine la più grande impresa di lavori marittimi del Mediterraneo. Nel 1948, durante una partita di scacchi, morì nella sua casa romana di via Paisiello 24.

Carlo Almagià: Suo figlio Carlo nacque nell’Aprile del 1909. Laureatosi in Ingegneria all’Università di Roma, e dopo il servizio militare in Aviazione, si recò in Libia ove lavorò alle dipendenze della Società Coloniale Anonima Lavori Africa (SCALA). Diresse importanti lavori di carattere civile e militare: serbatoi sotterranei, silos di Tripoli e Palazzo del Comando dell’Aeronautica.

Nel 1937 e 1938, dopo un breve richiamo sotto le armi che lo vide classificato come ottimo pilota, ha partecipato alla direzione di lavori di bonifica in Sicilia per poi dirigere una serie di lavori ferroviari a Roma. Con la morte del giovane Principe Colonna, figlio del Sindaco di Roma, precipitato alla guida dell’aeroplano che gli aveva dato in prestito e a seguito della promulgazione delle leggi razziali, fu costretto a lasciare l’Italia.

Imbarcatosi sul piroscafo “Rex”, raggiunse gli Stati Uniti agli inizi del 1939. Parte della diaspora anti-fascista in America, divenne ottimo amico di Carlo Sforza. Con lui e suo figlio Sforzino tornò in Italia dopo gli eventi del Luglio 1943. Il viaggio venne autorizzato dal Presidente Roosevelt.

Vi fu prima una tappa a Londra per un incontro con Churchill, finito poi in litigio. Seguì una sosta in Nord Africa per un colloquio con De Gaulle e, finalmente, su di un aereo Australiano, l’atterraggio a Bari. Unitosi al Partito d’Azione e dopo un tentativo bloccato dagli Inglesi di prendere Roma dal nord, il 10 Giugno del 1944 entrò nella Capitale travestito da marinaio francese.

Nominato da Sforza Commissario all’Epurazione per il Ministero della Guerra, diede le dimissioni l’8 Gennaio del 1945. Venne poi inviato a Washington insieme a Tarchiani come Primo Segretario dell’Ambasciata ed ebbe un ruolo di primaria importanza nel raccogliere aiuti per l’Italia. Estromesso dal nuovo ordine politico che si stava costituendo, si dedicò agli affari. Costituì una società in Libia, la General Overseas Libica, che gli venne tolta nel 1969, a seguito del colpo di Stato di Gheddafi. A Roma fondò la General Overseas Italiana, specializzata nella distribuzione di prodotti grafici della Dupont de Nemours.

A seguito del colpo di Stato del 1952 che aprì la strada all’ascesa al potere del Colonnello Nasser, consigliò suo cugino Edoardo Achille, incerto sul da farsi, a salvare la draga “Archimede”, allora la più grande esistente, facendola uscire dall’Egitto.

Uomo di grande cultura, eleganza e raffinatezza, amò circondarsi di begli oggetti. Il suo gusto lo portava verso il gotico, l’arte cinese ed il tappeto antico. Corteggiatore di belle donne, era persona molto spiritosa e abile conversatore. Morì a Roma nel 1980 e al suo funerale tennero un discorso il senatore Michele Cifarelli ed il fisico Remo Ruffini.

Roberto Almagià: Figlio di Edoardone, nacque nel 1883. Laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino, iniziò a collaborare con il padre nel 1911. Fu quello che rimase più a lungo in Egitto. Partecipò ai lavori di prolungamento del molo Ovest di Porto Said per conto della Compagnia del Canale di Suez.

Dal 1929 al 1934, prosegui la sua opera con il nuovo frangiflutti del Porto Est di Alessandria. Dopo la parentesi bellica e le vicende connesse alla II Guerra Mondiale che videro l’Impresa sequestrata dal governo Egiziano alleato degli Inglesi, decise di tornare in Italia. Dal 1944 al 1946 è presidente della Fondazione Almagià, una iniziativa dell’Associazione Costruttori Edili di Roma e Provincia.

La Fondazione ha il seguente scopo: “Attuare, promuovere, favorire ed incoraggiare le iniziative di carattere culturale, didattico e pratico finalizzate all’istruzione e alla ricerca scientifica nel settore edilizio, con particolare riferimento alla elevazione professionale dei dipendenti delle imprese edilizie e di quanti, anche se non cittadini italiani, si dedichino a qualche titolo all’edilizia, al miglioramento e al progresso dell’arte e della tecnica delle costruzioni edili, di qualsiasi tipo, genere e natura”.

La fondazione può anche istituire borse di studio, elargire sovvenzioni a scuole specializzate nell’industria edilizia, bandire concorsi e promuovere pubblicazioni.

Nel 1947, mentre si recava in volo da Roma ad Alessandria, morì tragicamente insieme a sua moglie e Gina Ambron in un incidente aereo. Era il primo volo di linea dall’Italia all’Egitto del dopoguerra. L’aereo esplose in volo e con tutta probabilità si trattò di un attentato effettuato dai Servizi Segreti Britannici.

Edoardo Achille Almagià: Roberto ebbe un figlio, Edoardo Achille, nato il 14 luglio 1928. Dopo la morte del padre venne emancipato e gli fu nominato tutore suoi zio Vittorio (detto Vittorino), uno dei ragazzi del ’99, che ebbe l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto. Il giovane Edoardo Achille si laureò in Ingegneria all’università di Roma e si sposò con Paola Berghinz, nipote di Alma Simonini in Berghinz de Rosmini. Gli sposi per il loro viaggio di nozze furono ospiti da alcuni suoi parenti a Porto Said. Per sovrintendere più tardi ai lavori in corso in quel centro, presero dimora nell’albergo Casinò Palace.

Edoardo Achille assunse i lavori per la costruzione della banchina della Stazione marittima e della banchina per i nitrati nel Porto Ovest di Alessandria, nonché quelli per il collettore del Porto Est. Tra il 1954 e il 1957, insieme alla ditta Pianini, eseguì una serie di lavori di dragaggio del Canale di Suez.

A seguito del colpo di stato del Luglio 1952 e del successivo arrivo al potere del Colonnello Gamal ‘Abd el Nasser, avvennero notevoli cambiamenti all’interno del Paese. Con la nazionalizzazione del Canale di Suez e l’intervento militare anglo-francese, assistito da Israele, seguirono una serie di leggi dirette contro gli stranieri residenti.

Tra il 1959 ed il 1960, la società egiziana di proprietà dell’Impresa Roberto Almagià fu messa in liquidazione. Si trattava della Société Egyptienne d’Entreprises et Constructions – Sharikat el Masreya el Mashru’at wa’l Mabanic – (S.E.D.E.C.). Venne nominato Liquidatore l’Ing. Giuseppe Camiz, marito di Virginia Almagià.

A Mestre-Marghera, nel 1961, la Società Italiana Dragaggi ed Escavazioni Rocciose (SIDER) – di proprietà dell’Impresa Roberto Almagià – partecipò insieme ad una società belga alla realizzazione del canale petroli. Nella laguna di Venezia, si occupò dell’interramento delle barene per la realizzazione della Terza Zona Industriale di Maghera. L’ing.Camiz fu promosso Direttore Generale e diresse questi nuovi lavori.

Nel 1964, l’Impresa si spostò a Ravenna per la realizzazione dell’ampliamento del porto canale di Ravenna (Progetto Greco) e la costruzione di due moli foranei a protezione dell’imboccatura del porto canale.

L’Impresa Almagià riuscì a riprendere le sue attività in Egitto solo nel 1978. Queste proseguirono fino al 1983 con i rilievi nel porto di Alessandria e gli scavi per la posa di tubazioni a mare per conto di società collegate all’ENI. Poco dopo la famiglia Almagià lascio definitivamente il Paese.

Si citano qui di seguito le opere più importanti realizzate in Egitto dal 1899 al 1983.

Ad Alessandria:

– Porto Est di Anfushi (1899-1904)

– Molo frangiflutti del Porto ovest

– Nuove banchine per legnami.(1906-1908)

– Prolungamento e ampliamento dei moli e costruzione di magazzini (1908-1921)

– Molo e Pontile a Ras el-Tin (1922-1923)

– Ampliamento del molo frangiflutti di Montazah e costruzione di una diga (1930-1932)

– Arsenale Militare (1931-1933)

– Collettore del porto Est (1948 – 1954).

– Banchinaggi per la stazione marittima (1948 -1954)

– Banchina dei nitrati (1951-1954)

A Porto Said:

– Prolungamento della diga ovest del Canale di Suez a protezione della rada di Porto Said (1911-1915).

– Collegamento con la ferrovia fino a Suez, dove furono poi costruiti i pontili d’imbarco per i materiali provenienti dalle cave dell’Ataka, distanti 180 Km dal luogo di posa. I lavori furono sospesi a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.

A Suez:

– Banchine al porto Ibrahim (1928-1930).

– Banchine del molo dei carboni (1935-1940).

– Dragaggio del Canale di Suez con la Vianini S.p.A. (1954-1983)

Roberto Almagià: Detto “il Ligure”, Roberto Almagià (1883-1962) fu geografo di grande fama. Accademico dei Lincei e Professore Universitario, pubblicò 550 tra libri e articoli, oltre a centinaia di recensioni. Interessato anche all’aspetto umano della disciplina, ha indagato le biografie di cartografi, geografi, esploratori e naturalisti, unitamente alla vita delle istituzioni intorno alle quali essi operavano.

Importanti i suoi studi storici sulla cartografia napoletana e i lavori sull’impresa maginiana per dar forma all’Italia. Di altissimo livello gli studi sulle frane e le sue pubblicazioni sulla Storia della Geografia e delle Esplorazioni Geografiche. A seguito delle leggi razziali trovò rifugio in Vaticano ove colse l’occasione per studiarne il materiale geografico.

La famiglia Ambron: Fra i parenti degli Almagià vanno ricordati gli Ambron, famiglia di ebrei livornesi. Aldo Ambron, anche lui Ingegnere, lavorò in Egitto. Amante delle mondanità e piuttosto snob, tenne ad Alessandria un salotto frequentatissimo. Squisita pittrice e allieva prediletta di Mancini, la moglie Amelia, nata Almagià, viveva nella loro splendida villa nel quartiere di Moharrem Bey. Usava parlare in vernacolo toscano e animava un vivace cenacolo di intellettuali: tra i numerosi frequentatori, Lawrence Durrell, Edward Morgan Forster oltre ad innumerevoli artisti e scrittori di ogni nazionalità. Quando Vittorio Emanuele III andò in esilio in Egitto, fu ospite per lungo tempo nella loro villa.

Amelia Almagià: Era nata ad Ancona il 2 Aprile del 1877. Portata per il disegno sin da piccola, Amelia ebbe come primo insegnante il pittore Cicconi. Trasferitasi a Roma nell’inverno del 1887 studiò con Giulio Cantalamessa, allora direttore della Galleria Borghese. Per il disegno ebbe come maestro il Toeschi, seguace di Fortuny. Ambedue le diedero un’eccellente preparazione.

Nel 1898 fece la conoscenza di Antonio Mancini, al quale suo padre Edoardo diede l’incarico di fare il ritratto di sua sorella maggiore Virginia. La giovane Amelia rimase colpita dal suo talento e ne ricevette non pochi consigli. Si legarono presto di profonda e sincera amicizia, tanto che ne divenne l’unica alunna.

A 25 anni si unì in matrimonio con l’ingegnere Aldo Ambron, che collaborava ai lavori nel porto di Alessandria. Era persona dal gusto raffinato ed eclettico in architettura, un giovane e brillante conversatore, pieno di curiosità per l’arte e amante del bello. Portato per le attività pratiche e realizzatore sagace, egli raggiunse notevoli successi professionali in Egitto. Dopo il 1910 vissero tra Roma ed Alessandria d’Egitto, luoghi nei quali allargarono la cerchia delle loro conoscenze e condussero un’intensa vita mondana.

Nella sua dimora di Roma, un’interessante costruzione in stile moresco che si trovava ai Parioli, Amelia aveva lo studio in giardino. In questa grande casa intrattenne un vivace salotto intellettuale nel quale, tra i numerosi ospiti, vi furono anche Coleman, Camillo Innocenti, Ierace, Aristide Sartorio, Cifariello, Pietro Canonica e Leonardo Bistolfi.

Tra il 1915 ed il 1920 eseguì numerosi ritratti a carboncino e sanguigna di un numero delle giovani donne dell’aristocrazia fiorentina quali Cora Antinori, Paolina Bondi, la contessa di Castagneto e la principessa Maria Ruffo.

Fu particolarmente vicina a Michetti, Vincenzo Gemito e Giacomo Balla, che ebbe come ospiti nella sua villa di Cotorniano, nel Senese, nella quale dopo il 1922 si trasferì prima per lunghi periodi e poi in via definitiva. Lì eseguì numerose opere, tra le quali un ritratto di Trilussa, buon amico di famiglia, nel 1928. L’anno seguente fece un ritratto alla violinista Jenny Skolnick, che ebbe come ospite. Nel 1933 vi fece il ritratto della duchessa Niky Visconti Arrivabene.

Di loro, della villa e della cerchia di artisti ed intellettuali che vi si riunivano scrisse diffusamente il mecenate senese Guido Chigi.

Nel corso del secondo conflitto mondiale si trasferì insieme al marito e alle due figlie nella villa di Alessandria d’Egitto, circondata da un immenso giardino nel quale aveva il suo studio. Tra le molte persone che la frequentarono vi fu anche Lawrence Durrell, che ebbe prima come ospite e al quale poi affittò la torre. Egli vi soggiornò per due anni e vi scrisse il suo romanzo in quattro parti dal titolo “Il quartetto di Alessandria”.

La villa, situata nel quartiere ebraico di Muharram Bey e oggi monumento nazionale, ebbe tra i vari ospiti anche Constantine Cavafy, Filippo Tommaso Marinetti, Claude Monet e Giuseppe Ungaretti.

I suoi ultimi anni furono segnati dal dolore. Nel giro di breve tempo perse infatti suo marito e le sue due figlie, Nora e Gilda. Morì a Roma nel 1960.

Emilio Ambron: Suo figlio Emilio nacque a Roma il 17 Novembre del 1905 e crebbe tra la residenza dei genitori ai Parioli e la villa di Alessandria d’Egitto in un ambiente colto e aperto all’intellettualità internazionale. Egli spese parte della sua infanzia in Egitto, terra che lasciò in lui un segno indelebile. Benché suo padre Aldo lo volesse avvocato, grazie alla sua mentalità aperta ad ogni manifestazione dell’arte egli lo sostenne nella sua passione per il disegno e la pittura.

Studente al liceo classico, sviluppò presto una passione per il disegno e la pittura. Ebbe Giacomo Balla quale insegnante, che dal 1922 al 1928, ad eccezione dei periodi che passava in Egitto, frequentò quasi ogni giorno recandosi presso il suo studio in via Paisiello. Per il disegno frequentò le lezioni di Orazio Amato presso l’Accademia Britannica di Roma. Nel 1928 al seguito del Duca degli Abruzzi visitò l’Eritrea e la Somalia, ove eseguì numerosi schizzi e disegni.

Nello stesso anno lasciò Roma per vivere successivamente tra Firenze e la tenuta di Cotorniano. Nel 1932, dopo la laurea in Giurisprudenza, frequentò a Siena la bottega di Umberto Giugni, dal quale imparò l’arte dell’affresco e delle antiche tecniche pittoriche. A Firenze sviluppò una lunga amicizia col pittore Baccio Maria Bacci, con il quale continuò a studiare l’affresco e collaborò alla realizzazione delle Storie Francescane nel convento della Verna. A seguito di queste amicizie maturò una notevole esperienza tecnica ed artistica. In quegli anni si recò spesso in Egitto e visitò anche la Grecia e la Turchia.

A seguito di una visita a Parigi, preoccupato per il corso degli eventi in Germania ed Austria ed ancor di più dalla crescente amicizia tra Hitler e Mussolini, iniziò a pensare che forse era meglio lasciare l’Europa. Addolorato anche dalla chiusura del giornale Il Mondo, che gli aveva pubblicato non pochi disegni, fece richiesta di un visto per gli Stati Uniti.

Non riuscendo ad ottenerlo e malgrado gli avvisi contrari di molti amici, quali Corrado Cagli e Moise Kisling, decise di partire per l’Oriente e recarsi a Bali. Voleva lasciarsi dietro anche l’artificialità del mondo che lo circondava per andare alla ricerca di qualcosa di più naturale ed incontaminato.

L’8 Dicembre 1938, insieme a sua sorella Gilda ed un bagaglio fatto essenzialmente di strumenti per uso artistico, si imbarcò da Marsiglia in direzione di Batavia, nelle Indie Orientali olandesi. L’intenzione era di passarvi qualche mese, vi restò otto anni: con lo scoppio della guerra, quello che doveva essere un viaggio di pochi mesi si trasformò in un’avventura che lo vide ritornare in Italia nel 1946, vestito di stracci e senza un soldo. Nel corso di questa lunga esperienza, visse da artista ed eseguì numerosi olii, pastelli e disegni a matita e carboncino.

La prima tappa fu Sabang, poi Singapore ed il 1 Dicembre 1938 sbarcò a Batavia, da dove visitò Surubaya, Yogykarta e Borobudur. La settimana successiva giunse a Singaraja, sulla costa settentrionale di Bali. Iniziò per lui una nuova vita, che col passare del tempo lo trovò sempre preoccupato dalle notizie che dalla radio gli giungevano dall’Europa. Dopo qualche tempo sua sorella Gilda decise di rientrare. Lui vi rimase conducendo la vita di un artista espatriato.

I crescenti timori di un conflitto in Europa e i sospetti sulle intenzioni dei giapponesi fecero sì che molti lasciarono Bali. Convinto dal pittore Romualdo Locatelli e da sua moglie, si trasferì insieme a loro a Manila, nelle Filippine. Da lì si recò poi a Shanghai, nel settimo anni dell’invasione giapponese della Cina. Lì apprese dell’entrata in guerra dell’Italia.

Viaggiando in zone di guerra e passando per Nanchino poco dopo il massacro effettuato dai giapponesi, egli arrivò a Pechino nel 1940 nella speranza di prendere un treno per la Russia e da lì, tornare in Italia. Non gli fu possibile. La città gli piacque molto e per sopravvivere si abbandonò alla sua arte. Nello stesso anno ebbe una mostra al Peking Institute. L’anno successivo esibì un numero di sue opere all’Institute of Fine Arts.

Pedinato dai giapponesi, tornò a Shanghai ove trovò la situazione molto deteriorata. Lì apprese dell’attacco giapponese a Pearl Harbor e assistette al bombardamento del porto. Non passò molto tempo che i giapponesi entrarono in città invadendo ed occupando le concessioni europee. In un clima sempre più teso egli fu testimone di numerosi sabotaggi e campagne di arresti.

Lasciata la Cina e passando per Haiphong, egli giunse ad Hanoi ove fu costretto ad un lungo interrogatorio da parte delle autorità di Vichy. Dopo pochi giorni salì su un treno per recarsi a Saigon. Da lì, insieme al corrispondente locale de Il Corriere della Sera, si recò in Cambogia per visitare le rovine di Angkor Wat. Decise di rimanervi e per qualche tempo trovò alloggio in un bordello dismesso.

Una sera conobbe una splendida ragazza di nome Neang. Le fece un ritratto e lei decise di restare con lui. Sempre più povero, insieme a lei si trasferì in una capanna fatta di erba e bambù sulla riva del fiume Siemreap. Benché soffrì di attacchi di appendicite e malaria, quello fu per lui un periodo felice e trovò il tempo per dipingere. Convocato successivamente a Phnom Penh, fu scaraventato in un commissariato di polizia per un interrogatorio. Dal console giapponese gli fu chiesto di firmare una dichiarazione nella quale si impegnava a difendere Mussolini fino all’ultima goccia del suo sangue.

Rifiutò e dopo lunghi negoziati giurò alla fine che non avrebbe attentato alla vita dell’Imperatore giapponese e della sua famiglia. Fece ritorno a Siemreap, ove continuò a vivere in mezzo alla natura insieme a Neang. Per sopravvivere, si recava ogni tanto a Saigon per vendere i suoi dipinti.

Dopo lo sbarco alleato in Francia nel Giugno del 1944 e la successiva caduta del governo di Vichy, i giapponesi attaccarono le posizioni militari francesi in Indocina. Fu così che arrivarono a Siemreap, lo catturarono e lo rinchiusero in un albergo con altri residenti stranieri del luogo. Portato a Phnom Penh, grazie all’intercessione del pittore Rollet, direttore della Scuola d’Arte cambogiana, riuscì ad ottenere un salvacondotto per Saigon ove apprese che l’Italia era passata a combattere con gli Alleati.

Sopravvisse ad un bombardamento e fu nuovamente catturato dai giapponesi. Insieme ad altri espatriati europei venne interrogato per alcuni giorni. Nel frattempo scoppiarono violente dimostrazioni anti-coloniali ed ebbe finalmente termine l’occupazione giapponese. Giunsero gli Inglesi e poi, con l’arrivo del generale LeClerc, i Francesi cercarono di reimporre il regime coloniale.

Riuscì a tornare a Siemreap, dove non trovò più traccia di nulla, neppure di Neang che nessuno sapeva dove fosse. Lì perse oltre metà delle sue opere e tutti i suoi scritti. Tra le sue peregrinazioni corse persino il rischio di essere fucilato da un gruppo di Annamiti. Tornato a Saigon venne catturato dalla polizia coloniale francese con l’accusa di essere un collaboratore. Finalmente, via Rangoon, gli riuscì di arrivare a Calcutta in un vecchio Dakota.

Senza un soldo e privo di un visto la sua situazione non fece che aggravarsi. Riuscì infine a fare la conoscenza di un impiegato egiziano della celebre ditta Balli che gli pagò il debito contratto per l’alloggio e riuscì a fargli avere un visto dagli inglesi. Nel Febbraio del 1946, potè finalmente partire per l’Egitto ove incontrò e fece amicizia con il pittore Apsar.

Tornò a Bali nel 1968 e poi varie volte ancora, l’ultima due anni prima della sua morte. Oggi numerose sue opere si trovano in musei asiatici e collezioni private europee e americane. Una settantina di queste possono essere viste nel palazzo reale di Klungkung, luogo tra i più sacri dell’isola.

Tornato in Italia, si trasferì in Toscana ove a Firenze acquistò in via Rondinelli uno splendido studio che in precedenza pare fosse appartenuto a Salvator Rosa, celebre pittore del XVII secolo. Lì riuscì in questo modo a stare vicino ai suoi amati artisti del passato, specialmente al Portormo da lui particolarmente apprezzato. Negli anni 50 passò numerose estati all’isola d’Elba, dove insieme ad un pugno di altri pittori, incluso il suo amico De Chirico, si dilettava a dipingere paesaggi.

Nel 1951 il conte Guido Chigi Saraceni gli commissionò per la Biblioteca dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena un ciclo di quattro grandi affreschi, lunghi 22 metri, ispirati dal XIII canto del Purgatorio di Dante che narrano dell’incontro in Purgatorio tra Dante e Sapìa. Furono completati nel 1954. Ispirandosi all’antico, realizzò nel 1956 la decorazione a mosaico della Nuova Galleria Dorica di Ancona. Nel 1958 eseguì per il Salone d’Onore del padiglione italiano all’Esposizione Universale di Bruxelles la decorazione del grande pannello con la Ninfa Aretusa.

Alla morte della madre, avvenuta nel 1960, trovò conforto tra i suoi numerosi colleghi ed amici, in particolare Somerset Maugham, che conobbe a Firenze nel 1962 e al quale fu legato fino alla sua scomparsa tre anni dopo. Vicini a lui furono anche Mario Tozzi, Gianni Vagnetti e Virgilio Carminiani.

Nel 1965 eseguì alcune pale d’altare per la chiesa anconetana di San Francesco delle Scale. A partire dagli anni 70 visse sempre più a lungo nella tenuta di Cotorniano per dedicarsi maggiormente alla scultura. Morì a Firenze nell’estate del 1996.

Numerosi suoi disegni sono custoditi al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Altre sue opere possono essere viste al Museo Pinacoteca San Francesco della Repubblica di San Marino ed un cospicuo numero di opere sono esposte alla Fondazione Giacomo Lercaro di Bologna.

Persona di vasta cultura e piacevolissima conversazione, egli parlava anche l’inglese, il tedesco e l’arabo. Amò circondarsi di cose belle e pensava che gli oggetti dovessero restare il più possibile nelle case per vivere con le persone e non essere riposti in scatole, scaffali o cassette, ove finivano col ridursi in una bellezza etichettata e morta.

Alla Fondazione Lercaro di Bologna, alcuni anni fa ha avuto luogo una mostra sui rapporti tra Balla e gli Ambron. Questa stessa fondazione conserva diverse opere sia di Amelia che di Emilio Ambron, oltre ad un’intera donazione da loro fatta di opere di Balla. La giovane Gina, sorella minore di Emilio e pure lei valente pittrice, morì tragicamente nell’esplosione dell’aereo di linea ove perirono Roberto Almagià e sua moglie.

Virginia Almagià: Sposò Vito Volterra, matematico e fisico di fama internazionale che fu tra i principali fondatori dell’analisi funzionale e della connessa teoria delle equazioni integrali. Importantissimi i suoi contributi alla biologia matematica. I suoi sforzi per creare un organismo italiano collegato al Consiglio Internazionale delle Ricerche, di cui era il vice-presidente, si concretizzarono nel 1923 con il decreto di Istituzione del CNR, di cui divenne presidente.

Tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al regime e fu costretto ad abbandonare l’Università e a dimettersi da tutte le sue cariche scientifiche. Appassionato di antichità classiche, ebbe un importante collezione di sculture ed epigrafi romane che amava mostrare agli amici nella sua villa di Ariccia, nei pressi di Roma.

Edoardo Volterra: Figlio di Vito e Virginia, fu grande collezionista di libri, curò la collezione di antichità dei genitori e divenne un celebre giurista. Dopo avere insegnato nelle università di Cagliari, Camerino, Pisa e Bologna, ottenne la cattedra di Istituzioni di Diritto Romano alla Sapienza.

Per via delle leggi razziali dovette lasciare l’Italia. Insegnò in Egitto, Francia e Brasile. Tornato in Italia nel maggio del 1940, fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Venne arrestato per attività antifasciste nel 1943 e partecipò attivamente alla Resistenza operando a Roma, spesso in modo spericolato. Ottenne il grado di Comandante Militare e fu insignito con la medaglia d’argento al valore e la croce di guerra.

Nel 1944 divenne Deputato provinciale di Roma e fu poi membro della Consulta Nazionale come rappresentante dell’Emilia-Romagna per il Partito d’Azione. Dal 1945 al 1947 fu rettore dell’Università di Bologna. Accademico dei Lincei, fu anche membro di diverse istituzioni italiane e straniere. Nel 1973 venne nominato Giudice della Corte Costituzionale della quale ricevette la vice-presidenza nell’ottobre del 1981.

Vittorio Sacerdoti: Figlio di Celeste Almagià e di Rodolfo Sacerdoti, fu medico di grande idealismo. Costretto a lasciare Ancona per via delle leggi razziali, grazie all’aiuto di Marco Almagià trovò rifugio a Roma, dove fu inserito nella struttura del Fatebenefratelli dal professor Borromeo, che era stato suo allievo.

Dalla fine del 1943 al Maggio del 1944, come giovane dottore dell’ospedale riuscì insieme ad altri colleghi ad aprire un padiglione speciale nel quale trovarono rifugio numerosi ebrei e dissidenti antifascisti. Il reparto non venne mai ispezionato dalle truppe tedesche perché al suo interno si trovavano pazienti affetti da un pericolosissimo morbo, noto come “morbo di K”.

Questo male ovviamente non esisteva ed il termine “K” venne preso in prestito dal nome del Feldmaresciallo Kesserling. I tedeschi, intimoriti, non vi misero mai piede. Aveva anche improvvisato di nascosto un’organizzazione clandestina di emergenza per accogliere gli eventuali feriti che avrebbero potuto esserci in seguito all’operazione su Roma organizzata, come si è visto, da suo cugino Carlo Almagià. L’attacco non avvenne per via dell’opposizione del governo di Londra, ostile agli Azionisti e ai Repubblicani.

Palazzo Almagià 

Edoardo Almagià (Edoardone) acquistò nel 1889 uno dei più antichi palazzi di Roma, sito vicino alla chiesa di San Lorenzo in Lucina. L’edificio, come risulta da documenti d’archivio, era sin dal 1260 la residenza dei Cardinali della chiesa stessa. Il più noto fu il Cardinale Gian Battista Cybo, futuro Papa Innocenzo VIII (1484-1492). Le costruzioni preesistenti, che sorgevano sul luogo un tempo creduto la casa di Domiziano, furono restaurate nel 1260 ed unificate dal Cardinale Eversham. Nel corso dei secoli seguirono altri restauri, fino ad arrivare alla totale ricostruzione nel 1520-30. Una lapide visibile all’interno del Palazzo ricorda l’evento: “Baldassare Croce, autore del nuovo allineamento dell’edificio sull’asse di Via del Corso, Palazzo Ruspoli e Via in Lucina”.

La facciata sul Corso fu rimaneggiata nel 1662. L’antica articolazione del celebre “Arco di Portogallo” che scavalcava la via Lata, oggi via del Corso, fu demolita durante i lavori. La struttura ebbe questo nome perché il Cardinale portoghese Giorgio Costa usava abitarvi nella parte superiore, un tempo collegata al Palazzo. Nei secoli l’edificio passò dalla proprietà della Camera Apostolica a varie famiglie finché, nel 1690, viene acquistato da Alessandro Ottoboni, duca di Fiano. Come già detto, nel 1889 venne infine venduto ad Edoardo Almagià. All’interno vi erano anche gli uffici della Ditta di costruzioni marittime Edoardo e Vittorio Almagià oltre che a quelli dell’impresa di Roberto ed Edoardo Achille Almagià. Il palazzo fu venduto nel 1990.

Il palazzo si presenta a tre piani. Al pian terreno ha due portali con sovrastante balcone e balaustre marmoree, oltre a numerose aperture di botteghe. Con fontana al centro, il cortile conserva resti di sarcofagi romani e alcune iscrizioni funerarie.

L’Ara Pacis Augustae: Sotto l’angolo del Palazzo, ove oggi vediamo il Cinema Nuovo Olimpia, sorgeva in antico l’Ara Pacis, grande altare eretto in onore della pace tra il 13 ed il 9 a.C. per volere dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto. Egli intendeva celebrare il lungo periodo di stabilità, tranquillità e prosperità raggiunto sotto il suo regno dopo le imprese dei suoi eserciti in Spagna ed in Gallia.

Di questo monumento, nel tempo, erano state trovate alcune parti. Nel Medioevo, prima della costruzione del Palazzo, l’area venne adoperata come fondaco da un marmorario che ne aveva anche adoperato un frammento per realizzare la pietra tombale di un certo Monsignor Poggi, sepolto nella Chiesa del Gesù. Le prime scoperte risalgono tuttavia ai lavori di ricostruzione del Palazzo effettuati tra il 1520 e il 1530.

Nel 1568, furono estratti altri frammenti di marmo finemente scolpiti. Si pensò all’epoca trattarsi di un arco di trionfo di Domiziano. Nello stesso anno, il Cardinale Andrea della Valle, amante dell’antico e collezionista, fece eseguire altri scavi nelle vicinanze di Via in Lucina. Vennero rinvenuti altre componenti di lastre marmoree: nove di queste vennero acquistate dal Cardinale Ricci di Montepulciano per il Gran Duca di Toscana. Altri frammenti finirono nella collezione Campana e, successivamente, passarono al Louvre. Diversi pezzi furono collocati nei Musei Vaticani. Una bella testa di Marte finì a Vienna.

Nel XIX secolo, sulla base di nuove ricerche, i Professori Ennio Quirino e Aurelio Visconti suggerirono che i reperti potevano appartenere ad un unico monumento di epoca Augustea, probabilmente l’Ara Pacis. Questa teoria venne in seguito confermata dai Professori Frederich von Duhn e Eugene Peterson.

Nel 1903 venne inoltrata la richiesta per l’autorizzazione di nuovi scavi al Ministro dell’Educazione. Il progetto fu reso possibile grazie alla generosità di Edoardo Almagià, che, oltre a dare il suo assenso all’asportazione dei reperti, donò anticipatamente quanto sarebbe stato recuperato sotto le fondamenta del suo palazzo. Offrì anche un considerevole contributo per le spese dello scavo.

Direttore dei lavori venne nominato il Prof. Angiolo Pasqui. Questi fece scavare delle gallerie, riuscendo a scoprire gran parte dei pannelli di marmo rimasti in loco. Li fece fotografare e decise di lasciare ogni cosa al suo posto per non creare gravi danni alle strutture sovrastanti. Per via della vicinanza del Tevere, tutto il sottosuolo del Palazzo era invaso da acque sotterranee.

Tra il 1937 ed il 1938, il Consiglio dei Ministri e l’On. Giuseppe Bottai decisero di riprendere i lavori di scavo. I motivi furono anche politici e di propaganda. Presto emerse un primo pannello con l’effige dell’imperatore Augusto. Le acque sotterranee impedivano di andare oltre. Per poter proseguire i lavori ed estrarre il resto del monumento, venne utilizzata una tecnica rivoluzionaria: furono piantati nel terreno dei tubi congelatori con il risultato di trasformare in ghiaccio le acque sotterranee. I marmi superstiti vennero così liberati senza compromettere la statica del Palazzo. Il problema si ripropose al momento della rimozione dei tubi. La soluzione venne trovata installando un gigantesco cavalletto di metallo sotto l’angolo dell’edificio.

I numerosi frammenti recuperati vennero trasportati all’interno dell’edificio del Museo delle Terme dove vennero con cura restaurati e buona parte di quelli dispersi in passato furono riacquistati e integrati con quelli di recente scoperta.

Nel 1938, con paziente lavoro, l’Ara Pacis fu rimontata e posizionata sul Lungotevere, accanto al Mausoleo di Augusto, all’interno di una teca realizzata dall’architetto Morpurgo. L’inaugurazione avvenne il 23 Settembre dello stesso anno. Nel 2005, su richiesta del Comune di Roma, l’Americano Richard Meier ha progettato e edificato l’attuale costruzione, finendo con l’attirare non poche critiche per il suo progetto e le sue dimensioni.