La primavera araba dopo sette anni
Alcune considerazioni nel settimo anniversario della Primavera Araba
“Sbarrate il corso di un fiume e avrete l’inondazione; sbarrate l’avvenire ed avrete la rivoluzione” (Guido Picelli)
“La Storia è come un fiume che si apre la sua via; noi sappiamo dove sboccherà ma non attraverso quali pianure” (Carlo Sforza)
A sette anni dall’inizio del processo rivoluzionario che ha investito la Tunisia, poi l’Egitto, la Siria, la Libia e lo Yemen, questo testo non intende addentrarsi in uno studio di quella che ha preso il nome di Primavera Araba.

Questi eventi ci sono ancora troppo vicini per essere giudicati con distacco. Date le polemiche e le prese di posizione che ne sono seguite, sarebbe utile soffermarsi su quei principi che le hanno ispirate e sul ruolo che hanno avuto e continueranno ad avere nel corso degli anni a venire.
Ciò è tanto più utile in quanto oggi, da numerose e spesso autorevoli parti, sentiamo esprimere dubbi sul futuro della democrazia e vantare i meriti delle autocrazie e dei sistemi illiberali.
Si sente spesso dire che l’Occidente e gli Stati Uniti siano sul viale del tramonto; che il domani appartiene a Paesi come la Cina, ben più autoritari e determinati. Viviamo in un mondo in rapido cambiamento e questo genera confusione, timori e grandi preoccupazioni: in gioco, il futuro, il benessere economico e le identità nazionali.
Riusciremo a tenere il passo con gli eventi? Quale sarà il ruolo delle nostre democrazie? Nei paesi liberi, tutto questo finisce col riflettersi sul dibattito, ne scuote la politica e apre la strada a forze nuove portatrici di visioni pericolose e antistoriche. Nessuno sa come queste diatribe finiranno col concludersi: è ragionevole supporre che non vi siano ancora motivi per temere che il sistema non è in grado reggere.
La sfida non è solo economica, ma anche ideologica. I critici fanno notare che chi affermava che la caduta del Muro di Berlino, e la scomparsa dell’Unione Sovietica, avrebbero portato ad un’era di affermazione delle democrazie liberali si erano sbagliati.
In risposta vorrei menzionare le parole di sfida che lanciò Krusciov nel 1959. Prima o poi – sosteneva – le corrotte Democrazie Occidentali sarebbero state soppiantate dal
sistema sovietico: i nostri nipoti erano destinati a vivere sotto il regime comunista. Sappiamo come è andata a finire.
Se è vero che in questo momento nelle nostre democrazie le difficoltà non mancano, è altrettanto vero che nel lungo periodo il controllo di un uomo su di un partito e quello di un partito sull’intera società non possono durare.
L’Occidente ha bisogno di risolvere i suoi problemi, ma non è certo puntando sull’autocrazia che potrà riuscirci: gli ultimi 250 anni ci hanno insegnato che la libertà è il fondamento del diritto umano.
I paragrafi a seguire intendono spiegare che la sfida posta alla Democrazia è quella di riuscire a combinare la libertà con l’autorità: chi sbaglia nella scelta mostra di non saper fare uso della libertà. L’avvenire di ogni democrazia è soprattutto una questione politica e creare una società libera non è cosa realizzabile dall’oggi al domani.
Vi è da aggiungere aggiungere che non è possibile avere la libertà economica senza quella politica: sono indivisibili. Dove non vi è libertà l’innovazione è limitata e senza libertà non si può giungere alla verità.
La Storia insegna che, per prosperare, l’idea di libertà non può fondarsi sul potere di una sola persona.
Per secoli re, papi e tiranni si sono arrogati il diritto di comandare gli altri. A seguito delle due grandi rivoluzioni del XVIII secolo, quella americana e quella francese, le idee di libertà, uguaglianza ed il concetto dei diritti dell’individuo hanno iniziato ad estendersi, fino a costituire le fondamenta del mondo moderno. Gli eventi insegnano che il modo di raggiungerle può essere anche brutale e sanguinoso.
Ricordiamo che a dieci anni dall’inizio della Rivoluzione, la Francia era un paese frammentato, debole e in rovina. Il popolo bramava una stagione di stabilità. Ad offrigliela apparve un Generale. Acclamato prima quale Console, finì con l’incoronarsi imperatore di fronte al Papa: la Rivoluzione sembrava essere tornata al punto di partenza.
Questo non ha certo impedito alle idee rivoluzionarie di diffondersi in tutta Europa, fino a toccare i Caraibi. Non sempre le rivoluzioni trionfano al primo tentativo. Il momento della rivoluzione non va infatti confuso con il processo rivoluzionario che può anche estendersi su molti anni.
Nella colonia francese di Saint-Domingue, l’odierna Haiti, mezzo milione di schiavi africani si unirono contro i grandi proprietari terrieri che li tenevano in catene. Dopo tre anni di lotte, la schiavitù venne abolita in Francia così come in tutte le sue colonie.
Il Primo Gennaio del 1804 Haiti è diventata così la prima nazione nera e anche dell’America Latina ad ottenere l’indipendenza. Da quel momento non è stato più possibile contenere questi principi per i quali – e lo si è visto – valeva la pena lottare e morire: libertà, uguaglianza, diritti civili e dignità dell’individuo.
Questi eventi non solo hanno aperto la via ad un nuovo assetto politico ed istituzionale, ma hanno anche modificato il modo di pensare degli individui: ad ogni uomo corrisponde un voto. Schierarsi con l’oppressione non era più possibile. Anche se sconfitte, le forze che hanno fatto esplodere la Primavera Araba sono ancora presenti: prima o poi riemergeranno.
La rivoluzione iraniana del 1979 e l’invasione americana dell’Iraq del Marzo 2003, che ha portato alla caduta di Saddam Hussein, sono eventi da considerarsi spartiacque nella storia del Medio Oriente contemporaneo.
Benché frutto di scelte politiche, hanno contribuito ad alterare quell’equilibrio secolare tra sunniti e sciiti, alimentando in ultimo anche un conflitto religioso che ha infiammato la regione e che persiste tutt’oggi.
L’ombra dei due eventi continua a proiettarsi fino ai nostri giorni. Tra le conseguenze, quella serie di rivolte che, tra la fine del 2010 e gli inizi del 2011, hanno scosso dalle loro fondamenta numerosi regimi arabi. Sono stati rimessi in discussione tutti gli ordinamenti della regione e persino quegli equilibri politici che ruotavano intorno al conflitto israelo-palestinese.
Sono passate alla Storia con il nome di Primavera Araba.
Una scintilla può far esplodere un Paese. Chi avrebbe mai pensato che la morte di un fruttivendolo in un remoto villaggio della Tunisia potesse suscitare rivolte in quasi tutto il mondo arabo?
Chi sa qualcosa di rivoluzioni, sa anche che possono essere contagiose. Così è stato per società in preda alla stagnazione politica, le cui radici liberali erano fragilissime. Non a caso, nel giro di un breve lasso di tempo sono saltati gli equilibri interni di nazioni ritenute come stabili.
I regimi dispotici e le dittature, negando libertà e diritti, non possono che alimentare rabbia, frustrazione e desiderio di rivolta. I loro sistemi brutali hanno calpestato le speranze della società civile, saccheggiato le casse dello Stato, tradito ed incatenato il popolo.
La soppressione del dissenso, il riempire le carceri di oppositori, il ricorso alla tortura, hanno portato chi era al potere a doverne renderne conto. La lezione da trarne è che regimi di questo tipo, all’apparenza molto solidi, finiscono col non esserlo affatto.
Date le radici profonde dello scontro tra libertà e dispotismo, queste rivoluzioni non sono state un’aberrazione. La Storia non si arresta e se le riforme hanno un costo, ritardarle o negarle ne avrà uno ben maggiore. I sogni prima o poi si incendiano. Indietro non è più possibile tornare: il Medio Oriente non sarà più quello di prima.
La Primavera Araba non è stata altro che la speranza di veder trionfare la libertà e la dignità dell’individuo. Chi si è ribellato, lo ha fatto per vivere in una società senza miseria, costrizioni ed ingiustizie.
Ha rivendicato il diritto ad una vita migliore, nella quale anche la sua felicità potesse trovar posto: incarnando un sogno di giustizia, le rivoluzioni assumono a distanza un aspetto sempre eroico. Nel loro fuoco, però, distruzione e purificazione diventano indistinguibili e spesso chi le ispira può restarne travolto. In maggioranza, i nostri politici hanno affermato che queste rivoluzioni sono state un errore. Hanno solo portato estremismo, scompiglio, disordine e meglio erano i regimi precedenti.
Si tratta di persone senza idee. Non pensano tenendo conto della Storia, ma inanellano luoghi comuni. Insieme a numerosi e influenti opinionisti, portatori delle stesse idee, questi ci vengono presentati come punti di riferimento imprescindibili e trasformati, dai portavoce del politicamente corretto, in maestri di questioni internazionali.
I media e la nostra politica non hanno bisogni di teste pensanti, ma di gente addomesticata con fatti di cronaca, di calcio e luoghi comuni.
La dittatura va applaudita in quanto baluardo contro estremismo e radicalismo. Meglio un dittatore che un Califfo – ci dicono – aggiungendo che in quei Paesi, più che alla libertà la democrazia conduce a disordine e islamismo. Ben venga dunque la stabilità di un regime sanguinario e repressivo.
Si tratta di un grave errore. Questi sono i falsi e folli pregiudizi dei conservatori: nessuno è più cieco dei cosiddetti realisti della politica e forse senza certi egoistici conservatori non vi sarebbero mai rivoluzioni.
Sono i dittatori stessi che con il sangue e la repressione hanno fatto da incubatori all’Islam radicale e al jihadismo. Non accorgendosi che le loro società stavano mutando, e negando al dissenso ogni spazio per esprimersi, hanno creato la formula perfetta per creare scontento ed estremismo religioso. Le moschee, unico luogo ove potersi riunire, sono divenute focolai per la discussione politica.
I regimi hanno così finito con l’alimentare quel circolo vizioso che a loro più conveniva: senza polso – dicono – ogni paese precipiterebbe nel caos e in mano ai terroristi.
Siria: Perfetto esempio di questo filone è il presidente Assad. L’oppressione condotta a danno dei sunniti ha portato prima alla protesta, poi al disordine ed infine a quel conflitto interno che ha consentito alla nascita dello Stato Islamico.
Profittando della situazione, questo si è rinforzato al punto da occupare vasti tratti della Siria e dell’Iraq.
Dalla scintilla, è scoppiata una guerra di tutti contro tutti nella quale sono state risucchiate e coinvolte numerose forze esterne. È interesse del mondo – insiste Assad – che al potere resti lui, unico argine allo sfacelo del Paese.
Il conflitto interno è andato aggrovigliandosi. Sostenuto dall’Iran e dalla Russia, il regime di Assad ha precipitato il paese in una guerra nella quale si sono inserite un’organizzazione terroristica (che si è proclamata Stato) ed una ribellione sostenuta dall’Occidente e da alcuni Paesi arabi sunniti. All’interno di quest’ultima, combattono anche gruppi radicali vicini ad al-Qaeda.
Con la recente sconfitta dell’Esercito Islamico, il conflitto ha assunto una dimensione territoriale: quello che conta adesso sono i luoghi dove si combatte.
Il prezzo di questo ragionamento: la distruzione del Paese. La guerra ha portato all’annientamento di numerose città, a circa 470.000 morti e a un numero di feriti elevatissimo.
Gli sfollati sono 8 milioni, alcuni costretti a spostarsi fino a sette volte. Cinque milioni sono i profughi all’estero; per sopravvivere, 6 milioni di bambini dipendono dagli aiuti umanitari e più di 2 milioni di loro si sono rifugiati in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. L’80% della popolazione siriana vive sotto la soglia di povertà.
Lo scorso anno Assad ha fatto lanciare dal cielo circa 13.000 barili ripieni di esplosivo e frammenti metallici. Negli ultimi tre anni sono stati effettuati qualcosa come 170 attacchi chimici.
Il regime vede tutto questo come un complotto internazionale ordito per distruggere il Paese e descrive l’opposizione interna come un insieme di bande terroristiche foraggiate dall’estero. Dal canto loro, Stati Uniti ed Unione Europea non hanno fatto nulla per interrompere i combattimenti. La Russia e l’Iran hanno contribuito ad
alimentarli. Più che mirare a un compromesso politico, il presidente Assad sta spingendo per una vittoria militare.
Nel 2011, dopo l’inizio dell’insurrezione popolare e a seguito delle violente repressioni, il presidente Obama fece sapere al mondo che Assad se ne doveva andare. Oggi Assad si sente più forte che mai, mentre ad andarsene è stato il Presidente Americano. Ancora più grave, passati alcuni mesi, Washington annunciò che se Assad avesse usato le armi chimiche contro la popolazione civile, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente.
Nell’estate del 2013, un quartiere di Damasco venne investito da un attacco chimico. Le vittime civili furono più di mille, tra le quali numerosi bambini. Obama non si mosse. A toglierlo dall’imbarazzo fu Putin, che persuase il leader siriano a disfarsi del suo arsenale di armi chimiche.
Passati alcuni mesi, e forse non a caso, il presidente russo annetteva surrettiziamente la Crimea. Poco dopo, fomentò la ribellione dei separatisti del Donbass contro Kiev. Nel Settembre dell’anno successivo, la Russia si installava militarmente in Siria e iniziava le sue prime missioni aeree in soccorso del regime di Damasco.
Se in questa faccenda Obama si è mostrato titubante e contraddittorio, l’Europa ha fatto sfoggio della sua completa irrilevanza. Ciò serve a far capire che in politica i fatti hanno sempre una loro logica.
Le responsabilità dell’Occidente sono gravi. Quello che è accaduto poteva essere evitato se si fosse deciso un tempestivo intervento in difesa del popolo siriano.
Rimosso Assad, si sarebbe dovuto formare un consorzio internazionale per accompagnare la transizione, trovare un accordo, formare un governo provvisorio e redigere una nuova costituzione. Una volta approvata, si sarebbe preparato il terreno per un successivo governo non inquinato da anni di dittatura.
Non averlo fatto ha portato alla situazione catastrofica di oggi. Malgrado l’aggravarsi del conflitto e l’intervento di potenze straniere, la soluzione non potrà che essere politica. Questo sia Washington che Mosca lo sanno molto bene: prima o poi dovranno incontrarsi su questo terreno.
Resta adesso una risoluzione approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel Dicembre del 2015. E’ dettagliatissima e traccia un percorso per fare uscire la Siria dalle sue attuali condizioni.
Debellato lo Stato Islamico, americani e russi dovranno trovare un accordo che parta da questa risoluzione per poi estenderlo agli altri centri di crisi.
Il caso della Libia
Libia: Ancora una volta paghiamo lo scotto dell’incapacità europea di darsi una politica estera e della rinuncia di Obama di portare a termine l’iniziale intervento militare in aiuto degli insorti che si erano sollevati contro il Colonnello Gheddafi.
Ne stiamo vedendo le conseguenze attraverso i continui sbarchi di migranti che solo di recente vengono affrontati a dovere. Con il tempo, quest’emergenza non ha fatto che aggravarsi al punto di indebolire l’Europa e contribuire alla frammentazione della nostra politica interna.
A cavalcare l’onda della protesta contro questo vasto fenomeno di spostamenti umani, alimentato anche dai conflitti nel mondo arabo, sono state le forze del populismo, della demagogia e della destra estrema.
Trovando appiglio nelle paure e nella disillusione dell’elettorato, questi gruppi hanno lanciato la loro sfida e messo in crisi gli altri partiti. La situazione ha finito col ripercuotersi su tutto il continente e giocare un ruolo nella scelta degli inglesi per la Brexit e negli ultimi risultati elettorali in Germania.
Dopo 40 anni di dittatura e tolto di mezzo Gheddafi, per difetto di solide istituzioni democratiche la Libia è sprofondata nel caos. Ad emergere, un coacervo di milizie urbane, tribali, religiose e di bande criminali.
Nel 2012, in assenza di uno Stato centrale e di un esercito regolare, la Libia precipita in una guerra civile. Sono stati saccheggiati numerosi arsenali militari e milioni di armi hanno iniziato a girare nel paese. Molte di queste sono state poi vendute nei paesi limitrofi.
Si è passati dall’attacco al consolato americano di Bengasi che è costato la vita dell’ambasciatore, fino ad arrivare ad un conflitto in Mali che si è poi esteso anche nei paesi confinanti.
Una serie di elezioni non sono state sufficienti a riportare l’ordine. Emerge la figura del generale Haftar e sorgono due governi rivali: uno basato a Tripoli e l’altro a Tobruk in Cirenaica, nella parte orientale del Paese.
Mentre l’Occidente insiste per la creazione di un governo di unità nazionale, l’Egitto di al-Sisi e gli Emirati Arabi Uniti danno il loro sostegno ad Haftar e al governo di Tobruk.
Nel corso del 2015, sotto l’egida delle Nazioni Unite, inizia una serie di colloqui di pace che porteranno alla nascita del governo di Fayez al-Serraj. Ottenuta la legittimità dell’ONU, questo dovrà insediarsi a Tripoli. Nel Marzo del 2016, lo stesso Consiglio di Sicurezza invita a sospendere i contatti con gli altri due governi paralleli.
Il governo islamista di Tripoli decide di sciogliersi ed offrire il suo appoggio ad al-Serraj; l’esercito nazionale libico di Haftar ed il governo di Tobruk oppongono un rifiuto provocando una frattura tra la parte orientale e quella occidentale del Paese.
L’autorità del nuovo governo ne risulta minata al punto da subire un tentativo di colpo di Stato da parte di Khalifa Ghwell, ex-primo ministro del precedente governo di Tripoli.
Mosca, che già sostiene Assad in Siria, coglie l’occasione per inserirsi nelle questioni interne della Libia e di offrire il proprio appoggio al generale Haftar. Di recente la Russia ha indicato la propria disponibilità a venire incontro alle esigenze del governo di Tripoli.
In questi anni la Libia è precipitata in un caos di violenze, uccisioni, torture, attacchi contro i civili e detenzioni arbitrarie. A tali sofferenze va aggiunto il danno causato da un’economia in ginocchio.
Nello sfaldamento generale si è inserito anche l’Isis, in crescente difficoltà nella sua sede originaria tra la Siria e l’Iraq. Dopo una massiccia e mirata campagna di bombardamenti aerei americani in appoggio alle milizie di Misurata, i combattenti dell’Esercito Islamico sono stati costretti ad abbandonare la loro capitale di Sirte.
Per concludere, l’errore non è stato tanto quello di eliminare Gheddafi quanto di non aver disposto nulla per il dopo. Distrutto il suo regime, l’Occidente avrebbe avuto l’obbligo di intervenire ed impedire al paese di precipitare in un groviglio di dispute territoriali, strategiche, ideologiche e religiose. L’impegno doveva essere quello di offrire sostegno politico ed economico, mediare tra le parti e ricostruire istituzioni libere dall’inquinamento di anni di dittatura.
Oltre a cercare di garantire sicurezza collettiva e autodeterminazione, altrettanto importante sarebbe stato formare una nuova classe dirigente e creare un nuovo cittadino. E’ tempo che la comunità internazionale si unisca, prenda l’iniziativa per costruire le istituzioni necessarie e non lasci il Paese solo nell’affrontare i suoi problemi.
Resta la risoluzione del Consiglio di Sicurezza approvata all’unanimità il 23 Dicembre del 2015. Riconosce legittimo il solo Governo di Unità Nazionale e chiede agli Stati Membri di intervenire a suo favore per stabilizzare il Paese.
Questa risoluzione è rimasta in parte disattesa: la situazione è tale da far sperare in un accordo tra Stati Uniti e Russia che abbracci quei centri di crisi nei quali i due Paesi si stanno confrontando.
Libia: Ancora una volta paghiamo lo scotto dell’incapacità europea di darsi una politica estera e della rinuncia di Obama di portare a termine l’iniziale intervento militare in aiuto degli insorti che si erano sollevati contro il Colonnello Gheddafi.
Ne stiamo vedendo le conseguenze attraverso i continui sbarchi di migranti che solo di recente vengono affrontati a dovere. Con il tempo, quest’emergenza non ha fatto che aggravarsi al punto di indebolire l’Europa e contribuire alla frammentazione della nostra politica interna.
A cavalcare l’onda della protesta contro questo vasto fenomeno di spostamenti umani, alimentato anche dai conflitti nel mondo arabo, sono state le forze del populismo, della demagogia e della destra estrema.
Trovando appiglio nelle paure e nella disillusione dell’elettorato, questi gruppi hanno lanciato la loro sfida e messo in crisi gli altri partiti. La situazione ha finito col ripercuotersi su tutto il continente e giocare un ruolo nella scelta degli inglesi per la Brexit e negli ultimi risultati elettorali in Germania.
Dopo 40 anni di dittatura e tolto di mezzo Gheddafi, per difetto di solide istituzioni democratiche la Libia è sprofondata nel caos. Ad emergere, un coacervo di milizie urbane, tribali, religiose e di bande criminali.
Nel 2012, in assenza di uno Stato centrale e di un esercito regolare, la Libia precipita in una guerra civile. Sono stati saccheggiati numerosi arsenali militari e milioni di armi hanno iniziato a girare nel paese. Molte di queste sono state poi vendute nei paesi limitrofi.
Si è passati dall’attacco al consolato americano di Bengasi che è costato la vita dell’ambasciatore, fino ad arrivare ad un conflitto in Mali che si è poi esteso anche nei paesi confinanti.
Una serie di elezioni non sono state sufficienti a riportare l’ordine. Emerge la figura del generale Haftar e sorgono due governi rivali: uno basato a Tripoli e l’altro a Tobruk in Cirenaica, nella parte orientale del Paese.
Mentre l’Occidente insiste per la creazione di un governo di unità nazionale, l’Egitto di al-Sisi e gli Emirati Arabi Uniti danno il loro sostegno ad Haftar e al governo di Tobruk.
Nel corso del 2015, sotto l’egida delle Nazioni Unite, inizia una serie di colloqui di pace che porteranno alla nascita del governo di Fayez al-Serraj. Ottenuta la legittimità dell’ONU, questo dovrà insediarsi a Tripoli. Nel Marzo del 2016, lo stesso Consiglio di Sicurezza invita a sospendere i contatti con gli altri due governi paralleli.
Il governo islamista di Tripoli decide di sciogliersi ed offrire il suo appoggio ad al-Serraj; l’esercito nazionale libico di Haftar ed il governo di Tobruk oppongono un rifiuto provocando una frattura tra la parte orientale e quella occidentale del Paese.
L’autorità del nuovo governo ne risulta minata al punto da subire un tentativo di colpo di Stato da parte di Khalifa Ghwell, ex-primo ministro del precedente governo di Tripoli.
Una politica complessa
Mosca, che già sostiene Assad in Siria, coglie l’occasione per inserirsi nelle questioni interne della Libia e di offrire il proprio appoggio al generale Haftar. Di recente la Russia ha indicato la propria disponibilità a venire incontro alle esigenze del governo di Tripoli.
In questi anni la Libia è precipitata in un caos di violenze, uccisioni, torture, attacchi contro i civili e detenzioni arbitrarie. A tali sofferenze va aggiunto il danno causato da un’economia in ginocchio.
Nello sfaldamento generale si è inserito anche l’Isis, in crescente difficoltà nella sua sede originaria tra la Siria e l’Iraq. Dopo una massiccia e mirata campagna di bombardamenti aerei americani in appoggio alle milizie di Misurata, i combattenti dell’Esercito Islamico sono stati costretti ad abbandonare la loro capitale di Sirte.
Per concludere, l’errore non è stato tanto quello di eliminare Gheddafi quanto di non aver disposto nulla per il dopo. Distrutto il suo regime, l’Occidente avrebbe avuto l’obbligo di intervenire ed impedire al paese di precipitare in un groviglio di dispute territoriali, strategiche, ideologiche e religiose. L’impegno doveva essere quello di offrire sostegno politico ed economico, mediare tra le parti e ricostruire istituzioni libere dall’inquinamento di anni di dittatura.
Oltre a cercare di garantire sicurezza collettiva e autodeterminazione, altrettanto importante sarebbe stato formare una nuova classe dirigente e creare un nuovo cittadino. E’ tempo che la comunità internazionale si unisca, prenda l’iniziativa per costruire le istituzioni necessarie e non lasci il Paese solo nell’affrontare i suoi problemi.
Resta la risoluzione del Consiglio di Sicurezza approvata all’unanimità il 23 Dicembre del 2015. Riconosce legittimo il solo Governo di Unità Nazionale e chiede agli Stati Membri di intervenire a suo favore per stabilizzare il Paese.
Questa risoluzione è rimasta in parte disattesa: la situazione è tale da far sperare in un accordo tra Stati Uniti e Russia che abbracci quei centri di crisi nei quali i due Paesi si stanno confrontando.
Tornando agli Houthi, è bene ricordare come questi siano un clan dalla struttura tribale. Si ritengono discendenti del Profeta e l’Islam che seguono è di derivazione sciita.
Non tutti gli zaiditi sono Houthi. Cinquant’anni fa la monarchia saudita dava il suo appoggio al loro Imam, uno sciita arabo, e non appartenente al credo Duodecimano di Tehran.
Dal 2004 al 2010 l’ex-presidente Saleh non aveva fatto che combatterli, salvo poi, nel 2014, concludere con loro un’alleanza allo scopo di contrastare il rivale Hadi.
Il 29 Novembre dello scorso anno Saleh annuncia la fine del rapporto con gli Houthi, lasciando intendere di voler dare il suo sostegno all’Arabia Saudita. Tra le righe ha fatto capire di essere disponibile ad un’apertura e che la sua figura poteva rappresentare la soluzione del conflitto.
Vedendo in questo un segnale di ingerenze esterne, la risposta degli Houthi è stata immediata e furibonda. A distanza di pochi giorni, il palazzo presidenziale veniva preso di mira e mentre il convoglio di Saleh lasciava la capitale, un razzo centrava la sua auto. È stato finito a colpi di fucile.
A pianificare l’attacco, una fazione radicale degli Houthi. Dietro a questa, un probabile disaccordo tra le parti sui rispettivi rapporti di forza nella capitale.
È possibile che gli Houthi dall’episodio siano usciti rinforzati. I loro obiettivi, infatti, non coincidevano con quelli di Saleh e per loro il conflitto con i sauditi era essenzialmente di natura religiosa.
Adesso non hanno più il freno della presenza di Saleh e non devono più temerne la concorrenza. Controllano tutto il nord del Paese ed è possibile che parte dei seguaci del presidente assassinato intendano fare causa comune con loro. È anche vero che il presidente non era isolato: vicino a sé aveva numerosi gruppi di fedeli che ora potrebbero volgersi contro i ribelli.
Con la scelta di Hadi, Saleh con i suoi si erano visti esclusi dalla partita e hanno voluto riaprire i giochi. E’ stato grazie all’attivarsi delle sue reti che gli Houthi hanno potuto fare il loro ingresso a Sana’a. Come reagiranno adesso queste reti non è dato saperlo.
Ciò che è certo, è che per l’Arabia Saudita e i suoi alleati si è trattato di un duro colpo. Con la nomina di Hadi per un breve periodo avevano sperato di poter modificare il corso degli eventi: ora sarà più difficile.
A contestare il governo Hadi ci si sono messi anche i separatisti del Sud. Aden è sotto assedio e la situazione del Paese risulta sempre più frammentata.
Il conflitto nello Yemen copre più guerre, esacerbate adesso anche dalla rivalità tra Nord e Sud. All’interno delle fazioni in conflitto vi sono non poche divisioni, spesso accentuate da strutture tribali e clan. Per ora a nulla sono serviti una serie di trattative segrete ed un tentativo di mediazione da parte dell’Onu.
Nel conflitto si sono inseriti anche gruppi terroristici come al-Qaeda nella Penisola Arabica, Ansar al-Shari’a ed elementi locali affiliati all’Esercito Islamico. Scopo delle loro azioni è combattere tutti per creare confusione instabilità. Di loro si occupano soprattutto i droni e le forze speciali americane.
La situazione è a tal punto disperata che la comunità internazionale si sta mobilitando per riportarla sotto controllo.
Si parla di una crisi senza precedenti e di immensa catastrofe umanitaria. I morti, per due terzi civili, sarebbero già più di 10.000. C’è chi parla addirittura di 60.000. I feriti intorno ai 50.000. Oltre sette milioni di persone sono alla fame. Circa venti sono senza acqua potabile e hanno urgente bisogno di aiuti alimentari.
Queste condizioni sono all’origine di un’epidemia di colera che ha già fatto oltre 1.500 vittime. Per la maggior parte si tratta di bambini. Si sono registrati anche numerosi casi di difterite. Il numero degli sfollati si aggirerebbe intorno ai 3 milioni. Ingentissimi i danni alle infrastrutture e gravi distruzioni hanno investito anche il patrimonio culturale.
La situazione dello Yemen in questo momento è tale che ci si può aspettare di tutto. Bisognerebbe far pressione sui sauditi affinché controllino i loro metodi di guerra e consentano di togliere il blocco, rendendo rifornimenti e aiuti umanitari accessibili al Paese. Solo dopo si potrà decidere il resto.
Tunisia: Anche se il percorso verso un sistema democratico non può dirsi completato, la Tunisia è riuscita ad evitare quel caos che ha investito gli altri protagonisti della Primavera Araba.
Il presidente Ben Ali è stato costretto alle dimissioni ed ha lasciato il Paese nel Gennaio del 2014. Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, l’esercito ha assunto il ruolo di garante dell’ordine pubblico. A distanza di poco tempo, nasce un governo di transizione capeggiato da Mohammed Ghannouchi.
La maggioranza del Paese lo considerava troppo legato al precedente regime. Di fronte al prolungarsi delle proteste e degli scontri, spesso violenti, con la polizia viene
nominato premier Beji Caid Essebsi che abolisce subito la polizia segreta e fissa la data per l’elezione di un’Assemblea Costituente.
La maggioranza è andata ai partiti che si erano opposti a Ben Ali. Il partito islamico moderato Ennahda ottiene il 37% dei voti e 89 seggi I laici riformisti del Congresso della Repubblica l’8,7% dei voti e 29 seggi.
Presidente della Repubblica viene eletto Moncef Marzouki che nominerà Primo Ministro Hamadi Jebali, come lui vecchio oppositore di Ben Ali. La coalizione di governo è composta da Ennahda, dal Congresso della Repubblica e dal Forum Democratico per il Lavoro e la Libertà.
Dopo aver fondato nel 2012 il partito Nidaa Tounes, nel Dicembre del 2014 Essebsi prende il posto di Marzouki. Pochi giorni dopo viene eletto Primo Ministro Habib Essid. Ne segue un accordo tra partiti e il varo del nuovo governo.
In Tunisia le urne hanno trionfato sulla violenza. I problemi che affliggono il paese, quali mancanza di lavoro, crescita debole e scarsi investimenti, non sono stati risolti. Le recenti manifestazioni ne sono una prova.
A protestare sono soprattutto i giovani. Lamentano carovita e mancanza di opportunità. Chiedono la sospensione della legge finanziaria, da loro reputata troppo severa, e contestano le nuove tasse decise il 1 Gennaio di quest’anno. Il governo si rende conto di queste difficoltà. Deve però implementare una serie di misure di austerità per accedere a prestiti del Fondo Monetario Internazionale.
Nel corso dell’inaugurazione di un centro culturale a Tunisi, Essebsi ha fatto appello alla pazienza, spiegando che le risorse sono quelle che sono. Il governo si trova preso tra due fuochi: da un lato le proteste della piazza, dall’altro gli obblighi con il Fondo Monetario.
A sette anni dalla Primavera Araba, non tutti i risultati sperati sono stati raggiunti. Se con l’approvazione della nuova costituzione dal punto di vista politico le cose sono migliorate, lo stesso non può ancora dirsi per la situazione economica e sociale. Molti giovani vedono soltanto la possibilità di emigrare o la strada del contrabbando.
Non è un caso se la Tunisia ha subito alcuni gravi attentati terroristici, diventando anche uno dei principali centri di reclutamento per quei gruppi radicali che combattono tra Siria, Iraq e Libia.
Il Paese tuttavia regge e sembra avviarsi verso un futuro di maggiore stabilità. Lo Stato ha mostrato di poter resistere e funzionare. Ha bisogno di essere aiutato economicamente ed è necessario incoraggiare e sostenere le forze progressiste e
democratiche al suo interno. Sarebbe utile elaborare piani di integrazione regionale e di sviluppo, oltre a progetti economici come la conversione del il debito estero in opere di investimento.
Conclusioni: Questi eventi ci hanno ricordato che la Storia ha i suoi tempi e i suoi ritmi. Che gli uomini hanno la capacità di indirizzarla e che difficilmente la fine di una dittatura può tradursi rapidamente nell’avvento di una democrazia liberale.
Questo passaggio politico è reso tanto più complesso in quanto i regimi autoritari hanno sempre fatto di tutto per impedire l’emergere di istituzioni indipendenti. L’altra importante lezione è che alla libertà non vi è alternativa.
Se alla libertà politica però non vi si aggiunge autorità, a vincere sarà sempre quest’ultima. Uno Stato può funzionare, anche per lunghi periodi, senza libertà: ma non può farlo senza l’autorità.
Tuttavia, se per funzionare uno Stato non può fare a meno dell’autorità, è altrettanto vero che per durare nel tempo ha bisogno di libertà.
Quali alternative vi sono ad essa? Quanto a lungo può pretendere di sopravvivere un regime che chiude lo spazio alla società civile e soffoca i diritti del cittadino?
La Primavera Araba non ha risolto il problema dell’equilibrio in Medio Oriente tra caos e stabilità, ordine e disordine, democrazia e dittatura: ma il compito non era certo facile. Quelle società non erano ancora mature per l’alternativa. Ciò non vuol dire che siano condannate a vivere per sempre sotto il tallone di un autocrate.
Non è vero che il mondo arabo sia incapace di democrazia: deve semplicemente trovare un percorso che gli sia proprio. Ricordiamoci cosa si pensava dei tedeschi. Fascismo e nazismo sono dopotutto prodotti dell’Occidente, così come lo è stato il comunismo. Nazioni e società sono sempre in grado di cambiare, soprattutto in seguito a clamorosi errori.
Le sfide popolari contro le autocrazie hanno intanto avuto il risultato di mettere a tacere diversi luoghi comuni: fra questi, che i regimi dispotici siano sinonimi di stabilità e che Arabi e Musulmani sono refrattari all’idea di libertà.
Questa sorta di realismo, per il quale le dittature servono a garantire stabilità e fare da diga all’estremismo islamico è durata fino al 2003.
In quell’anno, gli Stati Uniti decidono di invadere l’Iraq, ritenendo dannoso cercare la stabilità appoggiando le dittature e che queste erano nocive alla tranquillità della regione. Il progetto di poterle sostituire con istituzioni politiche libere e con una giustizia indipendente si smarrì nella confusione del caos iracheno.
Tornando agli Houthi, è bene ricordare come questi siano un clan dalla struttura tribale. Si ritengono discendenti del Profeta e l’Islam che seguono è di derivazione sciita.
Non tutti gli zaiditi sono Houthi. Cinquant’anni fa la monarchia saudita dava il suo appoggio al loro Imam, uno sciita arabo, e non appartenente al credo Duodecimano di Tehran.
Dal 2004 al 2010 l’ex-presidente Saleh non aveva fatto che combatterli, salvo poi, nel 2014, concludere con loro un’alleanza allo scopo di contrastare il rivale Hadi.
Il 29 Novembre dello scorso anno Saleh annuncia la fine del rapporto con gli Houthi, lasciando intendere di voler dare il suo sostegno all’Arabia Saudita. Tra le righe ha fatto capire di essere disponibile ad un’apertura e che la sua figura poteva rappresentare la soluzione del conflitto.
Vedendo in questo un segnale di ingerenze esterne, la risposta degli Houthi è stata immediata e furibonda. A distanza di pochi giorni, il palazzo presidenziale veniva preso di mira e mentre il convoglio di Saleh lasciava la capitale, un razzo centrava la sua auto. È stato finito a colpi di fucile.
A pianificare l’attacco, una fazione radicale degli Houthi. Dietro a questa, un probabile disaccordo tra le parti sui rispettivi rapporti di forza nella capitale.
È possibile che gli Houthi dall’episodio siano usciti rinforzati. I loro obiettivi, infatti, non coincidevano con quelli di Saleh e per loro il conflitto con i sauditi era essenzialmente di natura religiosa.
Adesso non hanno più il freno della presenza di Saleh e non devono più temerne la concorrenza. Controllano tutto il nord del Paese ed è possibile che parte dei seguaci del presidente assassinato intendano fare causa comune con loro. È anche vero che il presidente non era isolato: vicino a sé aveva numerosi gruppi di fedeli che ora potrebbero volgersi contro i ribelli.
Con la scelta di Hadi, Saleh con i suoi si erano visti esclusi dalla partita e hanno voluto riaprire i giochi. E’ stato grazie all’attivarsi delle sue reti che gli Houthi hanno potuto fare il loro ingresso a Sana’a. Come reagiranno adesso queste reti non è dato saperlo.
Ciò che è certo, è che per l’Arabia Saudita e i suoi alleati si è trattato di un duro colpo. Con la nomina di Hadi per un breve periodo avevano sperato di poter modificare il corso degli eventi: ora sarà più difficile.
A contestare il governo Hadi ci si sono messi anche i separatisti del Sud. Aden è sotto assedio e la situazione del Paese risulta sempre più frammentata.
Il conflitto nello Yemen copre più guerre, esacerbate adesso anche dalla rivalità tra Nord e Sud. All’interno delle fazioni in conflitto vi sono non poche divisioni, spesso accentuate da strutture tribali e clan. Per ora a nulla sono serviti una serie di trattative segrete ed un tentativo di mediazione da parte dell’Onu.
Nel conflitto si sono inseriti anche gruppi terroristici come al-Qaeda nella Penisola Arabica, Ansar al-Shari’a ed elementi locali affiliati all’Esercito Islamico. Scopo delle loro azioni è combattere tutti per creare confusione instabilità. Di loro si occupano soprattutto i droni e le forze speciali americane.
La situazione è a tal punto disperata che la comunità internazionale si sta mobilitando per riportarla sotto controllo.
Si parla di una crisi senza precedenti e di immensa catastrofe umanitaria. I morti, per due terzi civili, sarebbero già più di 10.000. C’è chi parla addirittura di 60.000. I feriti intorno ai 50.000. Oltre sette milioni di persone sono alla fame. Circa venti sono senza acqua potabile e hanno urgente bisogno di aiuti alimentari.
Queste condizioni sono all’origine di un’epidemia di colera che ha già fatto oltre 1.500 vittime. Per la maggior parte si tratta di bambini. Si sono registrati anche numerosi casi di difterite. Il numero degli sfollati si aggirerebbe intorno ai 3 milioni. Ingentissimi i danni alle infrastrutture e gravi distruzioni hanno investito anche il patrimonio culturale.
La situazione dello Yemen in questo momento è tale che ci si può aspettare di tutto. Bisognerebbe far pressione sui sauditi affinché controllino i loro metodi di guerra e consentano di togliere il blocco, rendendo rifornimenti e aiuti umanitari accessibili al Paese. Solo dopo si potrà decidere il resto.
Tunisia: Anche se il percorso verso un sistema democratico non può dirsi completato, la Tunisia è riuscita ad evitare quel caos che ha investito gli altri protagonisti della Primavera Araba.
Il presidente Ben Ali è stato costretto alle dimissioni ed ha lasciato il Paese nel Gennaio del 2014. Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, l’esercito ha assunto il ruolo di garante dell’ordine pubblico. A distanza di poco tempo, nasce un governo di transizione capeggiato da Mohammed Ghannouchi.
La maggioranza del Paese lo considerava troppo legato al precedente regime. Di fronte al prolungarsi delle proteste e degli scontri, spesso violenti, con la polizia viene
nominato premier Beji Caid Essebsi che abolisce subito la polizia segreta e fissa la data per l’elezione di un’Assemblea Costituente.
La maggioranza è andata ai partiti che si erano opposti a Ben Ali. Il partito islamico moderato Ennahda ottiene il 37% dei voti e 89 seggi I laici riformisti del Congresso della Repubblica l’8,7% dei voti e 29 seggi.
Presidente della Repubblica viene eletto Moncef Marzouki che nominerà Primo Ministro Hamadi Jebali, come lui vecchio oppositore di Ben Ali. La coalizione di governo è composta da Ennahda, dal Congresso della Repubblica e dal Forum Democratico per il Lavoro e la Libertà.
Dopo aver fondato nel 2012 il partito Nidaa Tounes, nel Dicembre del 2014 Essebsi prende il posto di Marzouki. Pochi giorni dopo viene eletto Primo Ministro Habib Essid. Ne segue un accordo tra partiti e il varo del nuovo governo.
In Tunisia le urne hanno trionfato sulla violenza. I problemi che affliggono il paese, quali mancanza di lavoro, crescita debole e scarsi investimenti, non sono stati risolti. Le recenti manifestazioni ne sono una prova.
A protestare sono soprattutto i giovani. Lamentano carovita e mancanza di opportunità. Chiedono la sospensione della legge finanziaria, da loro reputata troppo severa, e contestano le nuove tasse decise il 1 Gennaio di quest’anno. Il governo si rende conto di queste difficoltà. Deve però implementare una serie di misure di austerità per accedere a prestiti del Fondo Monetario Internazionale.
Nel corso dell’inaugurazione di un centro culturale a Tunisi, Essebsi ha fatto appello alla pazienza, spiegando che le risorse sono quelle che sono. Il governo si trova preso tra due fuochi: da un lato le proteste della piazza, dall’altro gli obblighi con il Fondo Monetario.
A sette anni dalla Primavera Araba, non tutti i risultati sperati sono stati raggiunti. Se con l’approvazione della nuova costituzione dal punto di vista politico le cose sono migliorate, lo stesso non può ancora dirsi per la situazione economica e sociale. Molti giovani vedono soltanto la possibilità di emigrare o la strada del contrabbando.
Non è un caso se la Tunisia ha subito alcuni gravi attentati terroristici, diventando anche uno dei principali centri di reclutamento per quei gruppi radicali che combattono tra Siria, Iraq e Libia.
Il Paese tuttavia regge e sembra avviarsi verso un futuro di maggiore stabilità. Lo Stato ha mostrato di poter resistere e funzionare. Ha bisogno di essere aiutato economicamente ed è necessario incoraggiare e sostenere le forze progressiste e
democratiche al suo interno. Sarebbe utile elaborare piani di integrazione regionale e di sviluppo, oltre a progetti economici come la conversione del il debito estero in opere di investimento.
Conclusioni: Questi eventi ci hanno ricordato che la Storia ha i suoi tempi e i suoi ritmi. Che gli uomini hanno la capacità di indirizzarla e che difficilmente la fine di una dittatura può tradursi rapidamente nell’avvento di una democrazia liberale.
Questo passaggio politico è reso tanto più complesso in quanto i regimi autoritari hanno sempre fatto di tutto per impedire l’emergere di istituzioni indipendenti. L’altra importante lezione è che alla libertà non vi è alternativa.
Se alla libertà politica però non vi si aggiunge autorità, a vincere sarà sempre quest’ultima. Uno Stato può funzionare, anche per lunghi periodi, senza libertà: ma non può farlo senza l’autorità.
Tuttavia, se per funzionare uno Stato non può fare a meno dell’autorità, è altrettanto vero che per durare nel tempo ha bisogno di libertà.
Quali alternative vi sono ad essa? Quanto a lungo può pretendere di sopravvivere un regime che chiude lo spazio alla società civile e soffoca i diritti del cittadino?
La Primavera Araba non ha risolto il problema dell’equilibrio in Medio Oriente tra caos e stabilità, ordine e disordine, democrazia e dittatura: ma il compito non era certo facile. Quelle società non erano ancora mature per l’alternativa. Ciò non vuol dire che siano condannate a vivere per sempre sotto il tallone di un autocrate.
Non è vero che il mondo arabo sia incapace di democrazia: deve semplicemente trovare un percorso che gli sia proprio. Ricordiamoci cosa si pensava dei tedeschi. Fascismo e nazismo sono dopotutto prodotti dell’Occidente, così come lo è stato il comunismo. Nazioni e società sono sempre in grado di cambiare, soprattutto in seguito a clamorosi errori.
Le sfide popolari contro le autocrazie hanno intanto avuto il risultato di mettere a tacere diversi luoghi comuni: fra questi, che i regimi dispotici siano sinonimi di stabilità e che Arabi e Musulmani sono refrattari all’idea di libertà.
Questa sorta di realismo, per il quale le dittature servono a garantire stabilità e fare da diga all’estremismo islamico è durata fino al 2003.
In quell’anno, gli Stati Uniti decidono di invadere l’Iraq, ritenendo dannoso cercare la stabilità appoggiando le dittature e che queste erano nocive alla tranquillità della regione. Il progetto di poterle sostituire con istituzioni politiche libere e con una giustizia indipendente si smarrì nella confusione del caos iracheno.