Scenari internazionali
America nel XX secolo
In questo nuovo ordine mondiale che ha fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino, alla fine dell’ideologia comunista ed al tramonto dell’Unione Sovietica, un dibattito sulla natura della politica estera americana non può dirsi solo una curiosità od un interesse esclusivamente antiquario. Quanto vi è oggi di isolazionismo e quanto di un ritorno alle tradizioni del passato?

L’isolazionismo americano non si era fondato solo sull’esaltazione del sentimento nazionale e sul ripudio dell’Europa. Nel XX secolo quest’ultimo nasce soprattutto da una sincera volontà di concentrarsi sulle riforme interne e di porre rimedio ai guasti dell’economia e ai problemi sociali. Il timore era che farsi assorbire e coinvolgere nei giochi di potenze esterne potesse mettere fine alla realizzazione di questi obbiettivi: a risentirne sarebbero stati quei generosi tentativi e quegli slanci di riforma ai quali in tempi di traversie interne e grave scontento non pochi guardavano per trarvi ispirazione.
Limitandoci al secolo scorso, quello a noi più vicino, vorrei ricordare ad esempio la dichiarazione di neutralità fatta dal presidente Wilson nell’Agosto 1914: per gli Stati Uniti la guerra in Europa era un conflitto “con cui non abbiamo nulla a che fare e le cui cause non ci possono toccare”. Neutralità dunque, ma non imparzialità. In politica interna il presidente, critico verso il sistema politico americano, si era impegnato a portare avanti un’azione di riforme sociali ed economiche implementando la politica battezzata della “nuova libertà”.
Il suo scopo era quello di portare avanti un programma progressista per attirare i consensi dei sindacalisti, dei riformisti e degli agricoltori. Con un’imposta sui redditi si impegnò nel realizzare una politica fiscale più equa, lottò per abbassare i dazi doganali, riformare sia il sistema bancario che monetario e combattere i monopoli. Combatté anche la pratica del lavoro minorile e concesse ai ferrovieri la giornata lavorativa di otto ore.
I problemi creati dalla guerra in Europa spensero l’impulso verso queste riforme economiche e sociali. Questo sarebbe stato successivamente ereditato da una nuova generazione di riformisti che se li sarebbero trovati di fronte all’epoca del New Deal rooseveltiano.
A seguito del primo conflitto mondiale e prima della sua morte, il progetto di Wilson era la creazione di un nuovo ordine mondiale basato sulla cooperazione internazionale al fine di garantire pace, integrità territoriale ed indipendenza politica. L’obbiettivo dei suoi 14 punti era quello di una pace di riconciliazione tra tutte le potenze. Nel corso della conferenza di Versailles fu costretto ad accettare molti compromessi ma riuscì a salvare il suo progetto della Società delle Nazioni.
I primi anni del ‘900 in America
L’ostilità della fazione più intransigente del Partito Repubblicano gridava la sua opposizione a qualsiasi partecipazione americana a organizzazioni internazionali. Il Congresso rifiutò di ratificare il progetto della Società delle Nazioni e benché nel 1920 ottenne il premio Nobel per la Pace, il presidente Wilson si ritirò ammalato e deluso. Le aspettative da lui suscitate furono altissime e, come spesso accade, vennero presto sostituite da un sentimento di profonda disillusione.
Nel 1920 il repubblicano Warren Harding venne eletto sulla piattaforma di “ritorno alla normalità”, molto apprezzata da una nazione fiaccata dai sacrifici della guerra. Prima della sua candidatura, egli aveva detto che ciò di cui l’America aveva bisogno erano “non gli esperimenti ma l’equilibrio, non l’avventurarsi nei problemi internazionali ma la salvaguardia di un trionfante nazionalismo”. Gli Stati Uniti non ratificarono il trattato di Versailles ed il 2 Luglio 1921 il nuovo presidente concluse un trattato separato con la Germania.
Da quel momento le successive amministrazioni applicarono una politica estera che pur conservando una propria autonomia, rifiutava qualsiasi coinvolgimento. Nel senso più stretto della parola questa politica non fu rigidamente isolazionista: mirava ad una cooperazione internazionale senza impegni specifici al fine di favorire la stabilità economica.
Nel 1923 salì alla presidenza Calvin Coolidge. Non aveva alcuna predisposizione né interesse per la politica estera. Gli è stata attribuita la frase “gli affari dell’America sono gli affari”. Eletto nel 1928, il presidente Hoover propose un programma conservatore introducendo l’idea del “New Day” (il nuovo giorno) in vista di realizzare il pieno potenziale economico della nazione. Nel corso della sua campagna aveva promesso l’imminente e definitiva scomparsa della povertà.
L’opinione pubblica rimaneva ostile all’internazionalismo wilsoniano e contraria a che il paese assumesse quegli impegni che l’adesione alla Società delle Nazioni avrebbe comportato. Vi fu una recrudescenza di nativismo che si manifestò anche in un sentimento di contrarietà nel farsi invischiare nelle controversie europee che sembravano non avere mai fine. Questo movimento, sorto dalla recessione che seguì la fine del conflitto e rafforzato dal cosiddetto “terrore rosso” e dalla fondazione della Terza Internazionale, oltre ad un’ostilità per l’Europa spingeva anche per limitare fortemente l’immigrazione.
Con la miseria ed il tracollo dell’economia che ne seguirono, l’arrivo della Grande Depressione contribuì a mantenere l’orientamento isolazionista e ad aprire un periodo di pacifismo che condusse nel 1932 alla vittoria elettorale di Franklin Delano Roosevelt.
La prosperità degli anni Venti era un ricordo: crollò la Borsa, l’industria aveva superato la possibilità di assorbimento dei consumatori, calarono le esportazioni, svanì la fiducia negli affari ed intere famiglie persero ogni loro risparmio ed in molti casi persino l’abitazione. Aumentò vistosamente anche il numero dei disoccupati.
Distratti dalle conseguenze della Grande Depressione e delusi dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, gli americani non avevano intenzione di farsi coinvolgere in un altro conflitto: l’opinione pubblica era assorbita dai problemi interni e persuasa che i contrasti internazionali non ledessero nessun interesse vitale del Paese. Nel Dicembre 1933, alla settima Conferenza Panamericana di Montevideo, il Segretario di Stato Cordell Hull sottoscrisse un accordo nel quale si affermava “che nessuno Stato ha il diritto di intromettersi negli affari interni di un altro”.
Di fronte ad un’opinione pubblica del tutto contraria agli impegni internazionali, il presidente Roosevelt fu costretto a lasciare agli isolazionisti del Congresso il controllo della politica estera, tanto che gli Stati Uniti ebbero involontariamente una responsabilità nel contribuire al consolidamento delle potenze dell’Asse.
Il nuovo presidente, che nel suo primo discorso aveva sostenuto che “la sola cosa da temere è la paura”, affrontò questa crisi con il cosiddetto “New Deal” che ebbe inizio con i “Cento giorni” nel corso dei quali fece approvare tutta la sua legislazione iniziale. La seconda fase del piano portò al Wagner Act del 1935, un ampio programma di soccorso per dare alla gente qualcosa di più in cui sperare. Fu un periodo di grande attività nel quale tutte le energie della nazione si erano concentrate nell’affrontare i gravissimi problemi interni e migliorare le condizioni della popolazione, in molti casi disperate.
Verso la fine dell’estate del 1937, malgrado un energico intervento dello Stato nell’economia, vi fu una ripresa della crisi. Si prolungava la stanchezza e la disperazione della popolazione, l’orientamento isolazionista restava forte tanto che il paese fece ben poco per opporsi alle dittature o incoraggiare altri a farlo. Tornato alla Casa Bianca nel Gennaio del 1938, Roosevelt promise la massima attenzione a “quel terzo del Paese male alloggiato, malvestito, malnutrito”. Già nel 1935, 1936 e 1937 egli aveva promulgato tre diversi atti di neutralità per tenere gli Stati Uniti lontani da una guerra ed evitare che ne venissero coinvolti.
Nel Giugno del 1940 a sottolineare quest’ostilità ad assumere impegni internazionali, venne fondato l’America First Committee che fece subito molti proseliti in quanto propugnava una difesa egoistica degli interessi nazionali. L’Europa era vista come senza speranza e la Germania non rappresentava in fondo una minaccia per la nazione. Questo era particolarmente sentito da tutte quelle comunità che vivevano nella parte interna del Paese: per loro in nessun modo gli Stati Uniti avrebbero dovuto farsi coinvolgere in un conflitto.
Nelle presidenziali del 1940, benché pienamente consapevole di ciò che stava accadendo nel mondo, il presidente Roosevelt per opporsi al rivale repubblicano Wendell Wilkie promise agli americani che non avrebbero mai preso parte a “nessuna guerra straniera”. Nel Novembre del 1939 egli aveva però emendato la legislazione sulla neutralità togliendo il divieto di vendere armi. Nel Marzo del 1941 sostituì questi atti di neutralità con il “Lend-Lease Act” (legge degli affitti e prestiti), il cui scopo era quello di venire in soccorso agli Alleati senza intervenire direttamente nel conflitto.
Tornando nuovamente ai nostri giorni, malgrado gli enormi passi avanti compiuti dalla Cina in questi ultimi anni, gli Stati Uniti restano ancora la più grande potenza mondiale con una capacità di proiezione che nessun altro paese può vantare. Alla fine però è probabilmente il loro potere di attrazione (soft power) che ne fanno tutt’ora un esempio per il mondo. Da quello che si è visto con le ultime amministrazioni il dibattito sulla natura della politica estera americana resta sempre aperto e si è caratterizzato da fasi alterne di tendenze isolazioniste, posizioni interventiste, unilateralismo ed infine azioni multilaterali.
Rimane sempre forte quel sentimento di idealismo come espresso dal presidente Wilson nel suo discorso al Congresso in cui chiedeva l’intervento militare contro la Germania. Presentò la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto come un atto di giustizia universale per la creazione di un nuovo ordine mondiale in grado di “offrire sicurezza alla democrazia”.