Notizie biografiche dell’ing. Carlo Almagià

La vita dell’ing. Carlo Almagià

​Di famiglia israelita, Carlo Almagià nasce ad Alessandria D’Egitto il 29 Marzo 1909 dall’ingegnere Edoardo Almagià, specializzato in opere marittime e da sua moglie Cecilia. Ottenne la sua maturità classica al liceo Tasso di Roma nel 1925 e si laureò in Ingegneria presso l’Università degli studi di Roma.

Appassionato sportivo e grande amante della montagna, ha contribuito allo sviluppo degli sport alpini in Italia sia come organizzatore in quanto consigliere della Sottosezione Universitaria Club Alpino Italiano (SUCAI) che partecipando più volte come atleta alle competizioni nazionali universitarie ed allo Sci d’Oro del Re.
E’ stato tra i fondatori dello Sci Club 18, che si è affermato in tutte le competizioni nazionali ed internazionali e che ha molto lavorato per diffondere in tutte le valli italiane la nuova tecnica dello sci.

Attirato dal volo sin dai tempi del liceo, ha desiderato servire la patria nell’Arma più rischiosa, partecipando al primo corso pre-militare di pilotaggio aereo e prestando poi il suo servizio come sottotenente pilota fra gli Assaltatori dell’Aria.

Ha svolto notevole attività come pilota turista in Italia ed in Libia dove, nel Maggio del 1934, durante un circuito aereo a causa di una violentissima tempesta di sabbia venne dato alcuni giorni per disperso. Venne ritrovato in territorio tunisino nei pressi di un fortino della Legione Straniera nel quale aveva trovato riparo. Persuaso dalla necessità nazionale di propagandare ed incoraggiare tale forma di sport egli, per tale attività, venne nominato Cavaliere nell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia.

E’ stato inoltre Commissario Sportivo della sezione di Roma della Reale Unione Nazionale Aeronautica (RUNA), che ha sempre cercato di aiutare, anche con personale contributo.

Congedato ed ottenuta nel frattempo la laurea in Ingegneria, si recava in Africa Settentrionale dove partecipava, alle dipendenze della Società Coloniale Anonima Lavori Africa (SCALA), alla direzione di importanti opere riguardanti lo sviluppo della quarta sponda (serbatoi sotterranei, silos di Tripoli, palazzo del Comando Aeronautica) dando tutta la sua opera per riuscire a terminare i lavori nel brevissimo tempo a disposizione. Nel 1937, richiamato in servizio militare per due mesi, si meritava un encomio scritto sulle carte personali dal Comandante del 20° Storno OA per la passione, la disciplina e l’abilità dimostrate. Veniva classificato ottimo pilota con 18/20.

Negli anni 1937 e 1938 ha partecipato alla direzioni di lavori di bonifica in Sicilia ed ha diretto lavori ferroviari a Roma, inclusa la piccola stazione di Settebagni.

A seguito del clima sulla legislazione razziale già palpabile nel Luglio 1938 venne attaccato per la morte del giovane Mario Colonna, figlio di Prospero, sindaco di Roma. Il suo amico cadde il 9 Luglio insieme all’istruttore Bartocco mentre volavano sul suo aereo che gli aveva dato in prestito per provarlo e farsi un giro.

“L’ebreo Almagià” venne sostituito in seno alla Commissione Sportiva della R.U.N.A. di Roma e dovette dare le dimissioni il 26 Agosto 1938. Avvisato suo padre dal prefetto Bocchini sui rischi che correva, venne decisa in famiglia la sua partenza per gli Stati Uniti.

Imbarcatosi a Genova sul Rex, egli abbandonò l’Italia nell’Aprile del 1939 per iniziare una vita in esilio. Arrivato a New York si dette da fare per trovare casa, un lavoro e perfezionare il proprio inglese. Data la sua specializzazione in opere marittime ed ingegneria civile non gli fu possibile trovare alcun impiego per via dei rapporti tra Stati Uniti e Italia: il suo campo di attività comportava lavori che erano considerati attinenti alla sicurezza nazionale. Con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, questi non volevano che un cittadino di un paese belligerante potesse operare in settori così delicati e strategici.

Con lo scoppio della guerra egli entrò sempre di più nel giro dell’emigrazione anti-fascista italiana e della Mazzini Society. Finì col conoscere il Conte Carlo Sforza, ultimo ministro degli Esteri prima della dittatura fascista, al quale si legò di profonda amicizia. Questo lo portò ad avere anche alcuni incontri con Don Sturzo, che considerava uomo di grande acume politico e profonda intelligenza. Rapporti strettissimi che durarono lungo l’arco della sua vita lo legarono a Max Ascoli, all’epoca presidente della Mazzini Society fondata nel 1939 da Gaetano Salvemini. Conobbe anche Adolf Berle e Dean Acheson.

A seguito degli avvenimenti del 25 Luglio e dell’8 Settembre, Sforza il 6 Ottobre 1943 lasciava New York per l’Europa portando con se due collaboratori: suo figlio Sforzino e l’Ing. Carlo Almagià. Per loro si trattava adesso non più di traccheggiare ma di prendere l’iniziativa, rientrare in Italia, combattere il fascismo e dichiarare nulli i trattati con l’Asse per affermare di essere in guerra con la Germania.

Pronto a battersi contro quelli disposti a tutto per conservare il vecchio ordine, avrebbe fatto parte di quella componente importante e oggi dimenticata della lotta antifascista per restituire l’Italia alla democrazia.

Atterrato in Scozia, il piccolo gruppo effettuò una breve sosta a Londra ove Sforza ebbe un incontro prima con Eden e successivamente con Churchill, che quasi finì a botte. Decollarono poi per l’Africa: ad Algeri venne fatta visita a de Gaulle ed altri esponenti politici e militari. Imbarcatisi in seguito su di un aereo da trasporto australiano, atterrarono con un motore in fiamme a Bari il 18 Ottobre del 1943 toccando finalmente il suolo italiano.

Subito dopo Bari il gruppo si trasferì a Brindisi, ove ebbe la possibilità di rendersi conto che negli ambienti ufficiali, in un clima di opportunismo e di menzogne, stava prendendo forma una sorta di neo-fascismo ipocrita e poliziesco. In questo clima Sforza ebbe un incontro con Badoglio, nel quale perorò l’abdicazione del Re che vedeva come simbolo di tutte le colpe e di tutti i disastri portati dalla dittatura, dalla guerra, dallo sfacelo del 8 Settembre e dalla fuga da Roma, senza parlare delle leggi razziali.

Sia il Re che Badoglio non celavano una profonda avversione verso le forze democratiche ed anti-monarchiche, al punto che le difficoltà che incontrarono in quel periodo furono tali ed il clima di ostilità così palpabile che, nel giorno in cui si trasferirono a Napoli, come racconta l’agente dell’OSS Peter Tompkins, scontarono il loro isolamento:

“Ma il governo di Badoglio, pur di screditare gli antifascisti, giunse ad usare ogni mezzo impedendo loro di lavorare, escludendoli dalle posizioni di responsabilità o, in mancanza di altri mezzi di persuasione, semplicemente cacciandoli in prigione sulla base di accuse del tutto inventate.

Il risultato, dal nostro punto di vista, fu che via Crispi divenne il rifugio per gli antifascisti in pericolo. Quando Carlo Sforza arrivò a Napoli con suo figlio Sforzino ed il suo segretario Carletto Almagià, non riuscirono a trovare nessun mezzo di trasporto, nessun alloggiamento e nessun posto dove mangiare. Li ospitai io in via Crispi dove, a tavola, si accendevano animatissime discussioni politiche”.

I tre in seguito trovarono alloggio al n.6 di Via Carducci. Per un breve periodo l’Almagià fu ospite in un piccolo appartamento al Vomero abitato da un’agente dei controspionaggio americano di nome David Colin. A disposizione vi era un letto molto grande nel quale dormivano in cinque. Tra questi vi era anche il regista cinematografico Riccardo Freda.

Fu vicino a Sforza nel tentativo di organizzare un Congresso antifascista a Napoli che sotto impulso di Badoglio, deciso ad impedire questa riunione, fu vietato dagli Alleati. Alle lamentele di Benedetto Croce e di altri membri del Comitato di Liberazione Nazionale napoletano venne poi concesso controvoglia ma a Bari, in quanto distante dalle linee del fronte e sotto stretto controllo della polizia militare di orientamento monarchico. Badoglio ed il Re continuavano nei loro intenti di mettere in difficoltà i tre.

Ansioso di combinare a fatti e non a chiacchiere e volendo dare il suo contributo anche militare alla sconfitta dei tedeschi, aveva chiesto di essere reintegrato nell’aviazione e partecipò ad alcune azioni di soccorso per le truppe italiane sbandate in Jugoslavia.

Si operò anche per organizzare il convegno repubblicano che si svolse presso l’università di Napoli. Badoglio dovette consentirlo controvoglia. Quando venne il momento per Sforza di rivolgersi alla platea, alcuni si accorsero che si era scordato di abbottonarsi i pantaloni sul davanti. Per quest’evento e anche successivamente, ebbe l’opportunità di frequentare Benedetto Croce sia come ospite nella sua dimora di Napoli che in quella di Sorrento.

Mentre lentamente gli eserciti alleati rimontavano la penisola egli, con il consenso di Sforza, ideava un piano per entrare a Roma prima degli Anglo-Americani. Si sarebbe fatto paracadutare su Monte Gennaro da un aereo della Raf e da lì, stabilito un campo base, avrebbe armato un gruppo di prigionieri inglesi che erano riusciti a fuggire e darsi alla macchia. Con il loro aiuto avrebbe attaccato l’aeroporto di Guidonia, fatto maggior danni possibile e preso dei mezzi di trasporto per dirigersi rapidamente verso Roma. Si preparò per questa missione con coscienza seguendo un corso di addestramento con i commando inglesi e, una volta pronto, Sforza gli affidò una lettera da consegnare ad Ivanoe Bonomi.

Annotava nel suo diario Filippo Caracciolo per la giornata di Lunedì 23 Novembre 1943:

“Parto con Carletto Almagià, Savelli, un capitano inglese di cui non ricordo il nome. Raggiungiamo Ariano Irpino prima del tocco. Riprendiamo la strada. Dopo una corsa lunga, taciturna e senza eventi eccoci a Bari. Da poco è calata la notte e proviamo qualche difficoltà a trovare l’appartamento dei fratelli Laterza che mi ospiteranno per la notte e trattengono a cena anche i miei compagni.

Dopo cena breve colloquio con Almagià. Questa è per lui la prima tappa di un viaggio che dovrebbe condurlo tra pochi giorni a Roma. Gli affido due messaggi preparati per Ugo La Malfa e lo saluto con emozione. Chissà quando ci rivedremo”.

Dopo un paio di tentativi regolarmente abortiti con vari pretesti, egli insisteva presso gli inglesi per poter compiere la sua missione. Per fortuna, prima del lancio, decideva di controllare l’apparecchio radio e le carte d’identità: il primo lo trovò manomesso e le seconde falsificate in modo talmente grossolano che lo avrebbero portato diritto al plotone d’esecuzione.

Si rese conto che agli inglesi questa missione, il cui fine era l’ingresso a Roma di un Azionista, uomo di Sforza e nemico di Badoglio e del Re, non avrebbe fatto il minimo piacere: anzi, questi non avrebbero esitato a rendergli impossibile sia politicamente che fisicamente di portare a termine questa sua iniziativa. L’obbiettivo avrebbe indubbiamente fatto infuriare Churchill e quella continuazione mascherata del regime monarco-fascista che era il Regno del Sud. Si trattava di fare del CLN e della sua giunta militare il protagonista di un’insurrezione che avrebbe portato alla liberazione della capitale e alla rivalutazione dell’immagine dell’Italia.

In preparazione di questo evento e per proteggere membri della Resistenza ed ebrei in pericolo, all’ospedale Fatebenefratelli fu creato dal dottor Borromeo un reparto speciale dedicato al morbo di K, malattia inventata, ovviamente contagiosissima e delle più pericolose, che sarebbe servita a tenere lontano le ispezioni tedesche. A quest’operazione partecipò anche Vittorio Sacerdoti, medico di Ancona e cugino dell’Almagià.

Ansioso di combinare a fatti e non a chiacchiere e volendo dare il suo contributo anche militare alla sconfitta dei tedeschi, aveva chiesto di essere reintegrato nell’aviazione e partecipò ad alcune azioni di soccorso per le truppe italiane sbandate in Jugoslavia. In un’occasione, si unì ad alcuni equipaggi americani diretti sulla Romania e prese parte ad una missione di bombardamento dei pozzi petroliferi di Ploiesti.

Il 25 Febbraio 1944, a seguito del discorso di Churchill che esprimeva nella sua parte italiana un’opinione che nessuna persona appena informata poteva condividere, comunicò in una lettera inviata al generale Noel Mason-MacFarlane, comandante della Commissione di Controllo Alleata (ACC), la sua più grande delusione e tristezza riguardo le frasi del primo ministro inglese.

In una lettera personale mandata a Badoglio da Napoli il 3 Giugno 1944, Sforza, oltre ad esprimere le sue proteste, fa menzione di quest’episodio:

“Il nostro dovere è di far marciare le cose, non inasprirle. Non darò dunque importanza all’incidente Almagià che tu deplorasti meco. Per quanto altri sarebbe forse men corrivo di me davanti al caso di segreti agenti che collaborarono intimamente coi Tedeschi fino a ieri (un loro socio fidatissimo è oggi dentro come spia) e che osano sentenziare che “un uomo di Sforza” è troppo sospetto per andare con loro (Almagià era forse anche indegno della loro fiducia perché nelle settimane scorse andò volontario a bombardare i Tedeschi in Romania?).

Ma non posso disinteressarmi delle direttive per l’occupazione di Roma. Mi consta da fonti sicure che l’agente del SIM (che è accompagnata da un gruppo di gente di mano) prepara per Roma un’intensiva e artificiale pubblicità monarchica. A simili manovre non posso dare il mio nome. Una politica concordata va adottata anche circa la data immediata o non del Principe….”.

Il 22 Aprile 1944 Sforza entrò come ministro senza portafoglio nel secondo gabinetto Badoglio che durò fino al 6 Giugno, giorno della liberazione di Roma.

Che in questa lotta per la resurrezione morale del Paese e contro la persona del Re, condotta dal Gennaio all’Aprile del 1944, le cose per loro non fossero facili lo scrive poco prima sempre Filippo Caracciolo da Salerno:

“Carletto Almagià si precipita di buon ora nel mio ufficio. E’ l’agitato portatore di tremende notizie.

Sembra che un Esecutivo Azionista del Nord (non si sa bene se Roma o Milano) abbia decretato la nostra espulsione dal Partito d’Azione. Carletto aggiunge, per mia migliore comprensione, che i signori del Nord sono scontenti della nostra partecipazione al governo Badoglio…..La notizia è inverosimile ma non impossibile”.

Il giorno successivo aggiunge: “Le informazioni di Carletto Almagià erano esatte. L’esecutivo di Roma sconfessa la nostra opera e ci considera fuori dal Partito”.

Il 10 Giugno del 1944, indossando un uniforme della Marina francese per sfuggire agli agenti di Badoglio, egli entrava a Roma dove finalmente ebbe l’occasione di rivedere tutta la sua famiglia che aveva potuto riunirsi e ristabilirsi nell’appartamento di via Paisiello 24. In precedenza, per via delle leggi razziali e delle retate tedesche e fasciste, dovettero tutti nascondersi in vari punti della capitale.

Il 18 Giugno Sforza fu chiamato a far parte del primo governo Bonomi come ministro senza portafoglio e venne nominato Alto Commissario per la Punizione dei Delitti e degli Illeciti del Fascismo. Il 2 Agosto del 1944 nomina Carlo Almagià come membro della Commissione per l’Epurazione al Ministero di Guerra. Frugando in quello che rimaneva degli archivi egli fece importanti scoperte riguardanti l’operato dei servizi segreti, la politica di Franco sull’ingresso della Spagna nel conflitto, l’assassinio dei fratelli Rosselli e l’entrata in guerra dell’Italia contro la Jugoslavia.

Informato delle dimissioni di Sforza dalla carica di Alto Commissario, egli stesso, deluso da come andavano le cose, l’8 Gennaio del 1945 lasciava il proprio posto: suo desiderio era quello di vedere un’Italia in grado di progredire verso la libertà e nella pace civile. Nel corso della sua attività si accorse che in troppi volevano impedirgli di condurre il lavoro fino in fondo: come per tradizione, a pagare per far dimenticare chi erano stati i veri responsabili e colpevoli del fascismo sarebbero stati i soliti poveri diavoli, gli stracci come li chiamava Sforza, che avevano peccato soprattutto per viltà, leggerezza, incomprensione o debolezza. Il fallimento politico dell’epurazione fece sì che in tutto il centro-sud vi fosse un forte riflusso verso destra.

Finita la guerra, egli tornava negli Stati Uniti insieme ad Alberto Tarchiani come Primo Segretario presso l’Ambasciata d’Italia a Washington. Quest’ultimo era uomo vicino a Sforza e membro del Partito d’Azione, che contribuì ad organizzare la fuga da Lipari di Carlo Rosselli. A seguito dell’invasione tedesca della Francia lasciò Parigi insieme a Sforza e ai Pacciardi per raggiungere Bordeaux. Da lì, su di un piroscafo olandese sbarcarono insieme a Londra. Poco dopo, insieme a Sforza, Tarchiani partì per New York. Sarebbe poi tornato pure lui in Italia dopo lo sbarco alleato in Sicilia.

Essendo stato testimone della rovina della propria patria, Carlo Almagià si dedicò anima e corpo a raccogliere la maggiore quantità possibile di aiuti da inviare all’Italia. Girò praticamente tutti gli Stati Uniti, recandosi nella maggior parte delle grandi città a perorare le necessità dell’Italia. Diede anche il suo sostegno all’organizzazione dell’American Medical Relief for Italy (AMRI). Tramite quest’ultima aiutò la Croce Rossa Italiana, all’epoca del tutto inadeguata ad affrontare le sfide e le esigenze del momento. Nei ritagli di tempo si operava anche per sostenere la causa della nascita dello Stato d’Israele ricevendo per questa sua opera l’encomio della Sig.ra Roosevelt.

Il suo essere Azionista ed intimo di Sforza fece si che a Roma, in ambienti soprattutto democristiani e della sinistra, si decise di rimuoverlo da Washington. Non essendo egli diplomatico di ruolo, si trovò la formula giusta avvisando Tarchiani, noto per la sua avarizia, che se voleva tenersi il suo collaboratore avrebbe dovuto pagarlo di tasca propria: lo Stato non aveva i mezzi per farlo. Il rifiuto giunse a distanza di breve tempo.

Nel Luglio del 1947 fu protagonista di uno degli ultimi duelli che si verificarono a Roma. Sulla via Appia si batté contro Pierfrancesco Mele. Il duello si svolse sotto la direzione del maestro colonnello Giulio Albertini e i due avversari si comportarono con onore. La contesa era nata nel corso di un’uscita notturna e si concluse nel corso del quinto assalto, quando Pierfrancesco Mele fu ferito all’avambraccio. I due contendenti si riconciliarono subito dopo. I padrini furono il barone Livio Calenda di Tabani e il dottor Cesardi per il signor Mele ed il dottor Giorgio Arbarello insieme al marchese Paolo Manca di Villahermosa per Carlo Almagià.

Si sposò nel 1948 a New York con Joele Paulette Pansini. Avendo perduto per via del cattivo tempo l’ultimo treno che doveva evacuare gli stranieri da Napoli, si trovò a dover passare gli anni di guerra in clandestinità a Roma. Spinta da sua madre, che aveva perduto cinque dei suoi fratelli nella battaglia di Verdun, ella servì come volontaria nella campagna d’Italia agli ordini del generale francese Alphonse Juin. Guidava un’ambulanza nei campi di battaglia e al suo fianco si trovava quella che più tardi sarebbe diventata la segretaria di de Gaulle. Ebbero come testimone di nozze Misha Kamenetski, più noto in Italia come Ugo Stille. Prese questo nome in onore di quello che fu il suo migliore amico, morto a causa di una mina mentre tentava di attraversare le linee tedesche per una missione che doveva portarlo a Roma.

Spirito libero e dalle notevoli capacità organizzative, ella aveva uno sviluppatissimo occhio per la qualità e la bellezza ed era nota per i suoi gusti raffinati e la sua eleganza. Collaborò nel campo dell’abbigliamento con Saks Fifth Avenue, ove ottenne numerose vetrine per le sue creazioni. Si dedicò anche all’arredamento: tra i suoi lavori, l’appartamento di André Laug. Entrambi i coniugi Almagià erano discreti esperti d’arte e, quando i mezzi lo consentivano, si divertivano ad acquistare oggetti antichi presso antiquari e case d’asta. Abitarono sempre in belle case circondati da libri e oggetti antichi ed amici interessanti.

Lasciato il lavoro diplomatico, Carlo Almagià rientrò in Italia verso la fine del 1951 per iniziare una carriera nel mondo degli affari. Finì col rappresentare la Dupont de Nemours in Italia nel settore delle arti grafiche. Aprì anche una società commerciale a Tripoli, in Libia, che gli fu tolta nel 1969 con l’avvento al potere di Gheddafi. Vicinissimo ai Repubblicani, molti dei quali erano stati Azionisti come lui, per porre fine a quell’anarchia regionale che aveva caratterizzato il primo quarantennio del secolo inseguì il progetto dell’organizzazione dell’Europa e della lotta per la libertà come condizione essenziale del progresso della società umana. Morì nel 1980 a Roma nel suo appartamento di via Monte Savello.

Poco prima della sua morte, passeggiando nel cortile di Palazzo Orsini, espresse al figlio le sue preoccupazioni per il domani di Israele, dicendosi anche terribilmente deluso dalla piega che stavano prendendo gli avvenimenti in Italia. Il suo amico Ugo La Malfa era morto da poco. Insieme a lui e altri amici si era battuto per un’Italia purificata, libera e democratica, senza traditori e corruttori.

Il Paese che aveva di fronte gli piaceva sempre meno e disse che se avesse saputo cosa sarebbe diventato, non avrebbe corso tanti rischi e pericoli. Vedeva di fronte a sè un sistema politico del tutto insufficiente, prossimo ad entrare in una crisi definitiva in un contesto di deperimento dello spirito democratico e di degrado corruttivo della vita pubblica. Temeva si stessero gradualmente perdendo le condizioni politiche necessarie per un rinnovamento.

Come tutti i suoi amici del Partito d’Azione, egli volle fare dell’Italia una nazione europea come sola alternativa per la fuoriuscita dal sottosviluppo. Si trattava anche di una battaglia per l’integrazione delle masse e l’avanzamento morale e materiale della collettività, con precisi obbiettivi di riforma nel quadro della progressiva creazione di un paese rinnovato. Avevano lottato per la Repubblica al fine di rimediare alle insufficienze e alle lacune dello Stato unitario. Si trattava fondamentalmente di inserire l’Italia in quel corso di civiltà da definirsi occidentale che è figlio delle grandi rivoluzioni dei secoli scorsi.

In politica estera la visione era quella di inserire l’Italia in un’Europa democratica, unita ed alleata degli Stati Uniti. Per questi uomini la politica estera non consisteva solo in atti diplomatici, ma soprattutto in scelte fondamentali di civiltà e di vita. Quest’ancoraggio euro-atlantico doveva essere un punto fermo, perché solo in Europa si poteva offrire al Paese una garanzia di stabilità politica ed economica.

Contrario alle farneticazioni di divinizzazione e sovranità assoluta dello Stato, egli aspirava ad un’Europa unita ed ad un mondo formato da una comunità di libere nazioni. Ebbe particolarmente a cuore il testo della Dichiarazione di Indipendenza americana che proclamava:

“Quando una forma di governo diviene distruggitrice di Vita, di Libertà e di Felicità il popolo ha diritto di alterarla o abolirla e di istituire un nuovo governo, organizzandolo in modo da farlo servire alla Sicurezza e Felicità di tutti”.